Traccia Parere Penale Nr. 1 – Esame Avvocato 2019
Tizio, dipendente di una multinazionale, riceve dal suo superiore Mevio l’incarico di sorvegliare il collega di lavoro Caio ed impedire che lo stesso divulghi ad aziende concorrenti alcuni importanti segreti aziendali dei quali è a conoscenza.
Un giorno Tizio segue Caio nei locali dove è in corso di svolgimento una convention e nota che lo stesso, dopo essersi appartato con due persone, consegna loro una pen drive e ne riceve in cambio una busta, nella quale gli sembra di scorgere del denaro. Convinto di aver assistito alla consegna di materiale di proprietà aziendale in favore di personale riconducibile ad una società concorrente, Tizio, sentendosi autorizzato dall’ordine del proprio superiore gerarchico, interviene bruscamente e aggredisce il gruppo, pretendendo l’immediata consegna del supporto informatico.
Ne nasce una colluttazione nel corso della quale Tizio, credendo di scorgere un’arma puntata nella sua direzione, impugna la pistola legalmente detenuta ed esplode un colpo in direzione di Caio, colpendolo in modo letale. Subito dopo, spaventato per l’accaduto, Tizio si dà alla fuga, portando con sé la pen drive caduta a terra durante la colluttazione.
Il candidato, assunte le vesti dell’avvocato di Tizio, individui le ipotesi di reato configurabili a carico del suo assistito, prospettando, altresì, la linea difensiva più utile alla difesa dello stesso.
Soluzione proposta – Parere Penale Nr. 1
Il caso sottoposto all’attenzione del candidato impone di esaminare il complicato tema dei rapporti intercorrenti tra il delitto di rissa, di cui all’art. 588 c.p., e l’istituto della legittima difesa, quantomeno nella forma putativa, emergente dal combinato normativo degli artt. 52 e 59, co. 4, c.p.
In particolare, occorre valutare se assuma rilevanza penale o meno la condotta di Tizio che, sorvegliando il collega di lavoro Caio su incarico del proprio superiore Mevio, coglieva Caio nell’atto di consegnare a due persone una pen drive, ricevendo in cambio una busta. Ritenendo di aver assistito alla consegna di materiale di proprietà aziendale alla concorrenza, Tizio interveniva bruscamente e aggrediva il gruppo, chiedendo la restituzione della chiavetta. Nel corso della colluttazione che nasceva, Tizio, credendo di scorgere un’arma puntata nella sua direzione, impugnava la propria pistola – legalmente detenuta – e sparava un colpo in direzione di Caio, uccidendolo.
Tizio – spaventato – fuggiva con la pen drive, caduta durante la colluttazione.
Per una più ordinata e compiuta risoluzione dei quesiti sottesi alla traccia occorrerà preliminarmente esaminare quali siano i requisiti di operatività delle cause di giustificazione dell’adempimento di un dovere (art. 51 c.p.) e della legittima difesa (art. 52 c.p.), analizzando in particolare gli estremi applicativi della c.d. scriminante putativa (art. 59, co. 4, c.p.).
Sarà quindi necessario soffermare l’attenzione sulle fattispecie incriminatrici astrattamente configurabili nel caso di specie: a tal fine, occorrerà analizzare, in particolare, i delitti di violenza privata (art. 610 c.p.), di rapina (art. 628 c.p.) e di rissa (art. 588 c.p.).
Da ultimo, occorrerà indagare se, e quali condizioni, la giurisprudenza di legittimità più recente abbia ritenuto applicabile la scriminante della legittima difesa in capo a uno dei soggetti corrissanti.
Quanto alla prima questione di interesse, preme evidenziare che, a mente dell’art. 51, “l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità”. La ratio che sorregge la scriminante in esame può cogliersi nell’esigenza di coerenza e di unità dell’ordinamento giuridico: sarebbe infatti intrinsecamente contraddittorio quell’ordinamento che vietasse, con la minaccia di sanzione penale, la realizzazione di un fatto, quando la realizzazione di quel medesimo fatto risulti imposta da una norma giuridica o da un ordine della pubblica Autorità. In ossequio alla chiara indicazione dell’art. 51 c.p., il dovere può pertanto promanare da due fonti tassativamente indicate: da una norma giuridica (ivi compresa anche una norma derivante da una fonte di rango inferiore alla legge statale); da un ordine legittimo della pubblica Autorità. Conseguentemente, come del resto confermato da un granitico indirizzo di legittimità (cfr., da ultimo, Cass., sez. III, 13 ottobre 2016, n. 50760), la causa di giustificazione in esame non è invocabile nell’ambito dei rapporti di subordinazione regolati dal diritto privato (ad esempio, tra datore di lavoro e dipendente).
Con riferimento invece alla legittima difesa, è noto come l’art. 52 c.p., a seguito dei diversi interventi normativi succedutisi nel tempo, contempla due diverse ipotesi: la legittima difesa “ordinaria”, disciplinata dal primo comma della disposizione e la legittima difesa c.d. “domiciliare”, regolata dai successivi tre commi dell’art. 52 c.p.
Per quanto qui di rilievo, è sull’ipotesi della difesa legittima “ordinaria” che preme soffermare l’attenzione, evidenziando come l’operatività dell’istituto in esame sia subordinata al ricorrere di taluni requisiti normativamente fissati: il pericolo attuale di un’offesa ingiusta ad un proprio o altrui diritto, sia esso personale o patrimoniale; la costrizione e la necessità difensive, la proporzione tra offesa ingiusta e reazione difensiva.
Premesso che le cause di giustificazione possono escludere l’antigiuridicità del fatto solo laddove effettivamente, nel caso concreto, ne ricorrano gli estremi normativi, l’ordinamento attribuisce rilievo anche all’ipotesi in cui l’agente creda, erroneamente, di agire in presenza di una situazione di fatto che, se esistesse nella realtà, condurrebbe all’applicazione di una scriminante. Ai sensi infatti dell’art. 59, co. 4, c.p., «se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui», fermo restando che, laddove tale errore sia determinato da colpa, l’agente risponderà del fatto se questo è preveduto dalla legge come delitto colposo.
In tal senso, ricorrono gli estremi della legittima difesa putativa laddove, sulla base di un accertamento da effettuarsi ex ante e alla luce delle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie esaminata, possa ritenersi che la reazione difensiva posta in essere dall’agente, pur obiettivamente non giustificata, poggiasse sul ragionevole convincimento di trovarsi in condizioni di fatto che, se esistenti, avrebbero escluso l’antigiuridicità della condotta (cfr. Cass., sez. IV, 3 maggio 2016, n. 33591).
Venendo ora ad analizzare, specificamente, le condotte in astratto ascrivibili a Tizio, occorre soffermarsi sulla disamina dei reati di cui agli artt. 610, 628 e 588 c.p.
In relazione al delitto di violenza privata, l’art. 610 c.p. – collocato nel Titolo XII del Libro II del Codice penale – sanziona la condotta di chi «con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa». Trattasi di un reato comune e istantaneo, posto a presidio della libertà morale dell’individuo, intesa come libertà di autodeterminazione del singolo. La condotta tipizzata consiste utilizzare, alternativamente o in modo congiunto, violenza o minaccia per coartare la vittima, costringendola a fare, tollerare od omettere qualche cosa. L’elemento psicologico è quello del dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di costringere taluno, tramite violenza o minaccia, a fare, tollerare o omettere qualcosa.
Con riferimento al delitto di rapina, tipizzato dall’art. 628 c.p., giova evidenziare che costituisce un reato complesso, perché gli elementi costitutivi del medesimo sono il delitto di furto e quello rispondente al tipo di violenza usata di volta in volta (violenza, minaccia, percosse); plurioffensivo, perché lesivo del patrimonio e dell’integrità personale; comune, potendo essere commesso da chiunque.
L’art. 628 c.p. individua, in particolare, due ipotesi delittuose autonome: il primo comma punisce la condotta di chi, mediante violenza alla persona o minaccia, si impossessa di beni mobili altrui sottraendoli a chi li detiene al fine di trarne un ingiusto profitto (c.d. rapina propria); il secondo comma, invece, quella di chi adoperi violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione onde assicurarsi il possesso della refurtiva o l’impunità (c.d. rapina impropria).
Sotto il profilo oggettivo, le due ipotesi di rapina presentano un nucleo comune: entrambe, infatti, puniscono l’impossessamento della cosa mobile altrui mediante sottrazione a colui che la detiene, con violenza o minaccia.
Le medesime, tuttavia, divergono sotto il profilo soggettivo ed in relazione al momento in cui viene esercitata la violenza nonché alla finalità di essa, con la conseguenza che differente è il loro momento di consumazione. Invero, entrambe le fattispecie sono punite a titolo di dolo specifico: tuttavia, mentre nella rapina propria l’agente mira esclusivamente al raggiungimento del profitto, in quella impropria il medesimo agisce al fine di assicurarsi l’impunità ovvero il possesso della cosa mobile sottratta.
Con specifico riguardo al delitto di rissa, preme evidenziare che, a mente del primo comma dell’art. 588 c.p., chiunque partecipi a una rissa è punito – per il solo fatto della partecipazione – con la sanzione pecuniaria della multa. Il capoverso della disposizione prevede tuttavia una circostanza aggravante c.d. autonoma che ricorre qualora nella rissa taluno rimane ucciso, o riporta lesione personale: in tal caso, infatti, i corrissanti sono puniti con la pena della reclusione da tre mesi a cinque anni.
Il bene giuridico tutelato dall’illecito in parola si individua nell’incolumità individuale. Trattasi di reato comune e necessariamente plurisoggettivo, in quanto richiede la partecipazione di almeno tre soggetti (cfr. Cass., sez. V, 7 febbraio 2014). La condotta tipizzata, in assenza di ulteriori precisazioni normative, consiste nella partecipazione a una violenta contesa tra soggetti contrapposti, con volontà vicendevole di attentare l’altrui incolumità personale. In tal senso, il delitto di rissa è sorretto dal dolo generico, consistente nella coscienza e volontà da parte di ciascun agente, di partecipare alla contesa con animo offensivo. I corrissanti devono pertanto essere animati dalla reciproca intenzione di aggredirsi, di talché non può ravvisarsi il reato qualora un gruppo di persone ne assalga deliberatamente altre e queste si limitino a difendersi (cfr. Cass., sez. V, 16 aprile 2015, n. 48007).
L’ultimo profilo teorico che pare necessario esaminare attiene al problema della compatibilità tra l’istituto della legittima difesa e il delitto di rissa.
In ossequio al costante insegnamento giurisprudenziale, la scriminante della legittima difesa risulta inapplicabile ai corrissanti, in considerazione del fatto che costoro, per un verso, risultano animati dal reciproco intento di offendersi e, per altro verso, hanno accettato la situazione di pericolo nella quale si pongono, così da escludersi la necessità della difesa (ex multis, cfr. Cass., sez. V, 16novembre 2006, n. 7635).
Tuttavia, i più recenti arresti di legittimità riconoscono la possibilità di configurare la legittima difesa a favore di taluno dei corrissanti, allorché l’aggressione di uno degli altri integri un’azione assolutamente imprevedibile e sproporzionata, tale da configurare un’offesa ingiusta che, per essere diversa e più grave di quella accettata, si presenti del tutto nuova, autonoma ed in tal senso ingiusta (cfr. da ultimo Cass., sez. V, 11 aprile 2019, n. 36143).
Tutto ciò premesso sul piano teorico, possono ora svolgersi alcune considerazioni in relazione alla vicenda concreta.
La condotta complessivamente tenuta da Tizio si compone di due distinte parti.
Con riferimento alla prima parte della vicenda, culminata nell’aggressione al gruppo composto da Caio e dalle due ulteriori persone a cui quest’ultimo aveva consegnato la pen drive, giova innanzitutto evidenziare che, in assenza di ulteriori precisazioni offerte dalla traccia, la condotta di Tizio potrebbe astrattamente integrare gli estremi oggettivi del tentativo di delitto di violenza privata o del tentativo delitto di rapina: egli infatti aggredisce i componenti del gruppo, ponendo quindi in essere una condotta violenta, alla scopo di costringerli a fare qualcosa, cioè a restituire la pen drive. Parrebbe dunque che Tizio non agisca sulla cosa, tentando di sottrarla a chi la deteneva, e dunque – nella non eccessiva chiarezza della traccia sul punto – parrebbe più plausibile ipotizzare un tentativo di violenza privato che un tentativo di rapina.
A prescindere dalla qualificazione giuridica proposta, deve peraltro evidenziarsi come il comportamento tenuto da Tizio non possa ritenersi scriminato in ragione dell’incarico, conferito dal superiore gerarchico Mevio, di sorvegliare Caio e di impedire a quest’ultimo di divulgare segreti aziendali. Infatti, come chiarito nelle premesse teoriche, la causa di giustificazione dell’adempimento del dovere non può essere invocata allorché l’ordine sia stato impartito da un soggetto gerarchicamente sovraordinato secondo diritto privato. Tizio è dipendente di una multinazionale, ergo di un soggetto non regolato da norme di diritto pubblico, bensì di diritto privato, sicché la relazione gerarchica con il proprio superiore Mevio non può che inquadrarsi, a sua volta, in uno scenario normativo prettamente privatistico.
Neppure tale circostanza potrebbe essere valorizzata quale erronea supposizione di una causa di giustificazione, posto che Tizio non stava supponendo erroneamente l’esistenza di fatti (non sussistenti) integranti una causa di giustificazione, bensì errava ritenendo che una data condizione fattuale – ben compresa – integrasse una causa di giustificazione che nell’ordinamento tuttavia non esiste (tale contegno integrerebbe al più un errore ex art. 5 c.p.).
Tuttavia, tenuto conto che la peculiare dinamica concreta alla quale Tizio assiste (consegna di una pen drive, dietro ricezione di una busta che, seguendo l’impressione percepita da Tizio stesso, conteneva del denaro) integrerebbe, muovendo dal (ragionevole) angolo prospettico di Tizio, il pericolo attuale di un offesa ingiusta a un diritto a contenuto patrimoniale altrui (la multinazionale per la quale egli lavora), si può ipotizzare l’esistenza degli estremi della legittima difesa (quantomeno putativa, ex art. 59, co. 4, c.p.) con la conseguenza che l’aggressione di Tizio, allo scopo di recuperare la pen drive, dovrebbe ritenersi scriminata ai sensi dell’art. 52 c.p.
Quanto alla seconda parte della condotta complessivamente descritta, giova osservare che la colluttazione scaturita dall’aggressione di Tizio sembrerebbe integrare gli estremi oggettivi del delitto di rissa: alla contesa violenta partecipano più di tre persone (Tizio, Caio, e i due soggetti a cui Caio ha consegnato la pen drive) e, nel contesto di gruppo così creatosi, si rinvengono quantomeno due “poli” d’interesse contrapposto, quello riferibile a Tizio e quello riconducibile a Caio.
In linea di principio, come evidenziato supra, i corrissanti non potrebbero invocare la legittima difesa per giustificare le condotte offensive singolarmente poste in essere all’interno della rissa tuttavia, nella specifica dinamica violenta che ha caratterizzato lo sviluppo della colluttazione, pare possibile rinvenire quei requisiti di imprevedibilità e non proporzionalità, rispetto al contesto aggressivo al quale gli altri hanno consapevolmente deciso di partecipare, che consentono di valutare la configurabilità della legittima difesa – quantomeno putativa – in capo a Tizio.
Egli infatti ha creduto di scorgere una pistola puntata contro di sé: tale percezione – che la traccia non chiarisce se fosse errata o meno (non viene indicato se una pistola, oltre a quella utilizzata da Tizio, effettivamente sia stata o meno estratta) – ha portato Tizio a reagire impugnando a sua volta un’arma, legittimamente detenuta, e a sparare un colpo contro Caio, uccidendolo. Sussistendo un rapporto di proporzione tra reazione difensiva di Tizio e (presunto) pericolo di offesa ingiusta verso il bene vita di quest’ultimo, paiono integrati gli estremi della legittima difesa putativa, ai sensi degli artt. 52 e 59, co. 4, c.p., e in linea con le più recenti indicazioni interpretative della Suprema Corte di Cassazione (cfr. Cass., n. 36143/2019).
D’altra parte, Tizio non potrà essere chiamato a rispondere nemmeno del furto della pen drive (art. 624 c.p.), tenuto conto che egli, pur avendo sottratto e pur essendosi impossessato di una res già entrata nella disponibilità materiale di soggetti terzi (Caio aveva infatti effettivamente aveva consegnato la pen drive a due persone durante la convention), non risultava affatto animato dal dolo specifico di profitto ingiusto richiesto dalla fattispecie: egli aveva infatti agito allo scopo esclusivo di proteggere la multinazionale, evitando la dispersione dei segreti aziendali contenuti nella pen drive.
Alla luce delle suesposte considerazioni, possono rassegnarsi le seguenti conclusioni.
Tizio, attesa la sua partecipazione alla colluttazione, potrà essere chiamato a rispondere del delitto di rissa, ai sensi dell’art. 588, co. 1, c.p.
Per contro, egli andrà esente da pena tanto con riferimento al delitto di violenza privata (o di rapina), quanto in relazione all’evento rappresentato dalla morte di Caio, posto che entrambe le condotte descritte risultano scriminate ai sensi dell’art. 52 c.p., eventualmente nella forma putativa di cui all’art. 59, co. 4, c.p. Allo stesso modo, pare da escludersi altresì un eventuale addebito, a carico di Tizio, per il reato di furto della pen drive, difettando l’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 624 c.p.