Esame d’avvocato 2016: 1ª traccia di diritto penale

Tizio – avendo intenzione di intraprendere l’esercizio di una attività di somministrazione di alimenti e bevande – chiede l’iscrizione nell’apposito registro pubblico, utilizzando il modulo di domanda predisposto dalla locale Camera di Commercio.

In epoca successiva all’ottenimento dell’iscrizione ed all’inizio dell’attività, Tizio viene però rinviato a giudizio per il reato di cui agli artt. 48 e 479 c.p., per aver dichiarato falsamente, nella parte della domanda relativa al possesso dei requisiti morali e professionali, di non aver mai riportato condanne per reati in materia di stupefacenti.

Tizio si reca dunque da un legale per un consulto e, dopo aver rappresentato quanto sopra, precisa di non aver compreso al momento della redazione della dichiarazione sostitutiva di certificazione in questione che i requisiti morali e professionali richiesti consistessero nel non aver riportato condanne per reati in materia di stupefacenti, in quanto il modulo conteneva esclusivamente il richiamo ad alcuni articoli di legge speciali, senza riportarne il testo né fornire alcuna spiegazione al riguardo.

Assunte le vesti del legale di Tizio, rediga il candidato un motivato parere, illustrando le questioni sottese alle fattispecie in esame e le linee di difesa del proprio assistito.

Soluzione proposta

Il caso sottoposto all’attenzione del candidato impone di valutare gli eventuali profili di responsabilità penale emergenti dalla condotta tenuta da Tizio in occasione della presentazione della domanda di iscrizione alla locale Camera di Commercio.

In particolare, i fatti esposti consentono di chiarire come Tizio, in tale circostanza, dichiarava falsamente di non aver riportato alcuna condanna penale all’atto di compilare il modulo di domanda predisposto dalla Camera di Commercio, avendo erroneamente interpretato la locuzione “possesso di requisiti morali e materiali” e le norme di riferimento ivi citate senza precisazione alcuna.

Per una più compiuta risoluzione del quesito sottoposto si renderà pertanto opportuno premettere alcuni cenni in relazione alla tematica della falsità in atti.

In secondo luogo, sarà necessario esaminare l’applicabilità del combinato disposto degli artt. 48 e 479 c.p. alla condotta di Tizio. Svolto tale approfondimento, ponendo particolare attenzione al concetto di “errore determinato da altrui inganno”, sarà possibile escludere l’applicazione di tali fattispecie al caso concreto.

In ultima analisi, sarà doveroso operare un’attenta disamina del delitto ex art. 483 c.p., avendo specifico riguardo all’elemento soggettivo richiesto per l’integrazione del delitto in parola, facendo riferimento anche alla specifica circostanza dei moduli prestampati per valutare se e, in quale misura, nella compilazione degli stessi il privato cittadino possa invocare in suo favore l’errata interpretazione di alcune diciture in essi contenute.

Quanto al primo profilo critico individuato, le fattispecie di falso sono accomunate dalla medesima ratio, la tutela della cd. fede pubblica documentale, ossia la fiducia e la sicurezza che la legge attribuisce a documenti determinati. Senza indugiare sulla distinzione tra atto pubblico e scrittura privata, risulta opportuno per quanto di interesse, distinguere tra falsità materiale e falsità ideologica, a seconda che il concetto di falso debba essere inteso come “non genuino” o come “non veritiero”. In particolare, il falso materiale può esplicarsi in una contraffazione o in una alterazione. Viceversa, il falso ideologico si ha in ogni caso in cui il documento contenga indicazioni menzognere.

Infine, l’ordinamento prevede distinte ipotesi di reato a seconda che il falso sia commesso da un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio (artt. 476 -481 c.p.), ovvero da un privato cittadino (artt. 482 e 483 c.p.).

Appare ora opportuno, sulla scorta della breve disamina sin qui svolta e ai fini della risoluzione del caso in oggetto, svolgere un’analisi del delitto ex art. 479 c.p., nel combinato disposto con l’art. 48 c.p.

Preme rilevarsi, innanzitutto che l’art. 479 c.p. punisce la falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici che si realizza quando il pubblico ufficiale attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto in sua presenza, ovvero attesta come ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute o comunque attesta falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità.

Come chiarito supra, il reato in parola è posto a tutela della fede pubblica, intesa come affidabilità e attendibilità del documento. Si tratta di reato proprio in quanto è richiesta la specifica qualifica soggettiva in capo all’agente e, per completezza, si sottolinea come si tratti di reato di pericolo, a fattispecie multipla con condotta tipizzata. Quanto al profilo di odierno interesse, la norma viene in rilievo rispetto alla condotta della falsa attestazione di fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità. Con riferimento all’elemento soggettivo, il delitto in esame è punito a titolo di dolo generico, consistente nella volontarietà e consapevolezza della falsa attestazione (ex multis, Cass. pen., Sez. V, 27 agosto 2013 n. 35548).

Preme rilevarsi come Tizio, privo della qualifica di pubblico ufficiale sia stato ciononostante rinviato a giudizio ex art. 479 c.p. in virtù della congiunta applicazione dell’art. 48 c.p.

Quest’ultima norma, infatti, disciplina l’errore determinato da altrui inganno prevedendo nel caso di errore sul fatto (che esclude il dolo) determinato dall’ “imbroglio” altrui, la punibilità del soggetto che ha determinato il soggetto agente materiale a commettere il reato. Ciò risponde evidentemente alla duplice esigenza, da un lato, di non punire il soggetto che incolpevolmente sia caduto su un errore sul fatto e, dall’altro, di ritenere responsabile del delitto commesso il reale artefice dell’illecito, vale a dire l’autore mediato che volontariamente abbia indotto in errore l’agente.

È pertanto necessario interrogarsi circa la nozione di errore con altrui inganno, al fine di chiarire l’astratta applicabilità del combinato disposto alla fattispecie che qui occupa. Appare tutt’altro che superfluo ribadire come la norma richieda che l’errore sia determinato da inganno,  a sottolineare che l’errore dev’essere frutto di un vero e proprio raggiro, un imbroglio ai danni della vittima posto in essere consapevolmente da parte dell’autore mediato. Sul punto, la stessa giurisprudenza ha affermato come l’inganno da cui deriva la responsabilità di cui all’art. 48 c.p. può consistere in qualunque artificio o altro comportamento atto a sorprendere l’altrui buona fede, quali ad esempio condotte descrittive o constatative volte a rappresentare una distorta realtà fattuale, condotte di natura valutativa o comunque prospettazioni fatte in assenza di parametri normativi predeterminati (in tal senso: Cass. pen., Sez. V, n.13249/2006).

Tali considerazioni consentono, dunque, di escludere l’applicabilità di tali fattispecie al caso in esame, poiché dai fatti emerge chiaramente l’assenza da un lato di qualsivoglia inganno, raggiro o artificio posto in essere da Tizio, dall’altro e conseguentemente l’assenza di errore nel pubblico ufficiale che, limitandosi a recepire il modulo di autocertificazione, ne ha acquisito il contenuto.

Pare più opportuno, dunque, concentrare l’attenzione sulla fattispecie p. e p. dall’art. 483 c.p. disciplinante la falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico, rectius come sostenuto da gran parte degli interpreti, le false attestazioni di privati in documenti pubblici.

Il bene giuridico tutelato dalla norma in esame è comune agli altri delitti di falso, e risiede come già precisato nella veridicità e affidabilità dei documenti. Si tratta di un reato comune, che punisce la falsa attestazione resa al pubblico ufficiale da parte del privato, in un atto pubblico, di fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, di mera condotta in quanto esso si consuma a prescindere dal conseguimento di un eventuale profitto, già nell’atto di rendere una dichiarazione infedele (sul punto, per tutte: Cass.pen., sez. VI, n. 12298/2012; Cass. pen., Sez. I, n. 26698/2013). L’attestazione falsa può essere resa oralmente o per iscritto, ovvero essere compiuta mediante un’attestazione incompleta, trattandosi di reato a forma libera.

Allo stesso modo della corrispettiva fattispecie esaminata in precedenza di cui all’art. 479 c.p., infine, il delitto è punito a titolo di dolo generico. Quest’ultimo consiste nella volontà cosciente di compiere il fatto e nella consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero (così, ad esempio, Cass. pen., Sez. II, n. 47867/2003). Voglia considerarsi che in più occasioni la Suprema Corte ha escluso la sussistenza dell’elemento soggettivo in capo all’agente quando la falsità ideologica sia il frutto di una leggerezza o di una negligenza (così ad esempio: Cass. pen. Sez. VI, n. 15485/2009; Cass. pen., sez. V, n. 2088/2010).

In particolare, pare non irrilevante valutare la sussistenza dell’elemento soggettivo in capo al presunto autore del reato, nelle ipotesi in cui la falsa dichiarazione non consegua ad una domanda posta dal pubblico ufficiale, ma si riscontri in una attestazione che l’agente faccia da sé in moduli prestampati compilando le relative voci. Orbene, in tali specifiche occasioni è evidente come debbano entrare nella valutazione dell’elemento soggettivo al fine di determinare la volontarietà e consapevolezza di rendere una falsa dichiarazione anche le difficoltà tecniche che l’agente possa incontrare nell’interpretazione delle indicazioni presenti nel modulo stesso. In altre parole, sembra doveroso valutare in concreto, non solo la comprensibilità in astratto, ma altresì la comprensione effettiva da parte del soggetto agente delle richieste esistenti nei moduli al fine di determinare se egli abbia agito volendo attestare il falso, ovvero sia stato poco scrupoloso nella compilazione del prestampato. In tali seconde ipotesi, versando il soggetto a ben guardare non già nell’alveo del dolo, ma piuttosto denotando il suo comportamento un atteggiamento colposo perché negligente e imperito, dovrà escludersi la sussistenza del delitto ex art. 483 c.p.

Operate le doverose considerazioni sul piano astratto, si rendono ora necessarie alcune valutazioni concrete ricollegabili al caso di specie.

Invero, Tizio è stato rinviato a giudizio per i reati di cui agli artt. 48 c.p. e 479 c.p. ritenendo l’Autorità giudiziaria procedente che la compilazione non veritiera da lui resa abbia indotto in errore il pubblico ufficiale, sì da fargli erroneamente attestare il falso nel documento pubblico. Orbene, tale approdo appare non del tutto corretto sulla scorta delle considerazioni sopra svolte. Infatti, appare evidente come l’attestazione resa da Tizio si sia risolta nella mera compilazione di una dichiarazione sostitutiva di certificazione già idonea, di per sé, a provare il vero senza alcuna successiva attestazione da parte del pubblico ufficiale. A ben guardare, Tizio non ha in alcun modo indotto in errore il dipendente incaricato di ricevere la sua domanda, il quale piuttosto, si è limitato a prendere atto del contenuto trascrivendo la sua iscrizione nel registro della Camera di Commercio. Non vi è stata, in altre parole, alcuna condotta fraudolenta o ingannatoria da parte di Tizio, né alcun errore da parte del dipendente incaricato.

Per tali ragioni, deve escludersi l’applicazione nel caso concreto della fattispecie di cui all’art. 479 c.p. in combinato disposto con l’art. 48 c.p., potendosi semmai ravvisare nella condotta di Tizio una falsità del privato in documento pubblico.

Non pare doversi dubitare, infatti, del carattere di atto pubblico della dichiarazione sostitutiva di atto notorio, né dell’assenza di qualsivoglia qualifica soggettiva in capo a Tizio. Del resto egli, compilando la domanda da presentare alla Camera di Commercio ed omettendo di indicare le precedenti condanne per reati in materia di stupefacenti, ha effettivamente reso una falsa dichiarazione.

Purtuttavia, Tizio non sembra aver tenuto tali condotte con la coscienza e volontà di compiere un atto falso. Invero, si evince dagli elementi a disposizione come egli nel compilare il modulo predisposto non abbia compreso il significato della dicitura “requisiti morali e professionali”, ritenendo che essi non afferissero alla cd. fedina penale. Oltre a ciò, deve rilevarsi, come l’indicazione di alcune norme di legge nel modulo non abbia in alcun modo agevolato la compilazione di Tizio che, in quanto uomo della strada era del tutto ignaro del contenuto di siffatte disposizioni. Tale contegno può, senza dubbio, integrare gli estremi di una responsabilità colposa in quanto connotata da negligenza e imperizia: Tizio avrebbe dovuto, infatti, nel compilare la domanda, eseguire i dovuti accertamenti delle disposizioni di legge, chiedere informazioni all’ufficio di riferimento della Camera di Commercio, ovvero rivolgersi ad un legale. Al contrario, la sua condotta non può intendersi come espressione della sua coscienza e volontà di attestare il falso nel documento presentato alla Camera di Commercio.

Per tutte tali ragioni, previa riqualificazione dell’addebito a Tizio nell’ipotesi delittuosa ex art. 483 c.p., si ritiene di dover escludere nel caso concreto una sua responsabilità penale, mancando nel suo contegno l’elemento soggettivo richiesto dalla norma, ovverosia la coscienza e volontà di compiere una falsa attestazione.

Tale approdo appare confermato anche alla luce della recente pronuncia della Suprema Corte secondo cui: “integra il delitto di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico la condotta di colui che attesti falsamente il possesso dei requisiti morali e professionali – in sede di dichiarazione sostitutiva di certificazione, preordinata ad ottenere l’iscrizione nel pubblico registro degli esercenti commerciali – considerati che detta iscrizione, nel quale la trascrizione dell’autocertificazione del privato si è trasfusa è atto pubblico, destinato a provare la verità del fatto attestato. Qualora, tuttavia, detta dichiarazione sia contenuta in un modulo prestampato di non immediata comprensione, non può ritenersi esistente l’elemento soggettivo sulla base di un dovere di accertamento del privato determinato dall’assenza di chiarezza del modulo, in quanto, in tal caso, la responsabilità per il delitto di cui all’art. 483 c.p., viene fondata non già in ragione della coscienza e volontà di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero, ma sulla base di una colposa omissione di indagine, insuscettibile di integrare il delitto di cu all’art. 483 c.p., punibile a titolo di dolo” (Cass. pen., Sez. V, 27 novembre 2014 n. 12710).

Esame d’avvocato 2016: 2ª traccia di diritto penale

Tizio rappresentante della società Alfa, avendo saputo che sarebbe stata di lì a poco bandita una gara d’appalto del servizio di somministrazione dei pasti nell’ospedale pubblico Beta, contatta il suo amico di vecchia data Mevio, preposto alla predisposizione del bando di gara, che acconsente a consegnargli interamente i documenti pre-gara.

Grazie alle informazioni avute, la società Alfa si aggiudica l’appalto.

Successivamente pero’ la Guardia di finanza sequestra presso l’abitazione di Mevio alcuni appunti manoscritti, concernenti la fase preparatoria della gara, con i quali Tizio aveva dato indicazioni per modificare le condizioni del bando in senso favorevole alla propria società Alfa (indicazioni poi rivelatesi recepite nella versione definitiva del detto bando di gara).

Il candidato, assunte le vesti di Tizio, individui le fattispecie di reato configurabili a carico di entrambi i soggetti e gli istituti giuridici applicabili.

Soluzione proposta

Il caso sottoposto all’attenzione del candidato impone di valutare la penale responsabilità di Tizio e Mevio, in merito alle condotte da questi tenute in occasione della gara d’appalto per il servizio di somministrazione dei pasti all’interno dell’Ospedale pubblico Beta, appalto poi affidato alla Società Alfa di cui Tizio è legale rappresentante.

In particolare dai fatti emerge come Tizio, venuto a conoscenza dell’esistenza della gara d’appalto, decideva di contattare l’amico Mevio incaricato della predisposizione del bando di gara al fine di ottenere indebitamente documenti destinati a rimanere segreti prima della gara. Le successive indagini della Guardia di Finanza consentivano, inoltre, di scoprire come Mevio, su specifica indicazione di Tizio, avesse modificato le condizioni del bando in senso favorevole alla Società Alfa.

Per una più compiuta risoluzione del quesito sottoposto si renderà opportuno analizzare le tematiche della rivelazione di segreti d’ufficio e della turbativa d’asta.

Quanto al primo profilo, dopo una compiuta analisi del delitto ex art. 326 c.p., sarà necessario comprendere se e in quale misura sia configurabile il concorso del cd. extraneus nel suddetto reato.

In secondo luogo, sarà necessario approfondire la fattispecie sub art. 353 c.p., avendo riguardo anche al discrimen sussistente con la diversa ipotesi di reato p. e p. dall’art. 353 bis c.p.

Infine, sarà doveroso completare l’esame della questione analizzando il possibile concorso tra i delitti di cui all’art. 326 c.p. e 353 c.p.

Quanto al primo profilo critico individuato, il delitto ex art. 326 c.p. punisce il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie d’ufficio le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza. Il secondo e il terzo comma prevedono una circostanza rispettivamente attenuante, in ipotesi di mera agevolazione colposa, e aggravante. In particolare, la pena è aggravata qualora il p.u. o l’i.p.s. si avvale illegittimamente di notizie d’ufficio che debbano rimanere segrete, al fine di procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale.

Si tratta di un reato volto a tutelare l’interesse della p.A. al normale svolgimento delle proprie attività, nel rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità previsti costituzionalmente all’art. 97 Cost.

Quanto alla natura giuridica del delitto in parola, trattasi di reato proprio, in quanto la norma richiede la qualifica giuridica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio; è inoltre reato di pericolo effettivo e non meramente presunto dacché la mera rivelazione del segreto non è punibile in sé e per sé, ma in quanto suscettibile di produrre un qualche nocumento agli interessi tutelati a mezzo della notizia da tenere segreta (in tal senso, hanno chiarito ogni precedente contrasto Cass. pen., Sez. Un., 7 febbraio 2012 n. 4694).

Con riguardo all’elemento oggettivo, il delitto in esame punisce la rivelazione di notizie d’ufficio segrete: ciò significa che il soggetto agente deve portare alla conoscenza di soggetti terzi, non destinati a conoscerla, una notizia rientrante nella competenza dell’ufficio e collegata funzionalmente al tipo di attività esercitata nell’ufficio dell’agente. Sul punto, la giurisprudenza ha più volte ricordato come il contenuto dell’obbligo la cui violazione è sanzionata dall’art. 326 c.p. non è limitato soltanto alle informazioni sottratte alla divulgazione in ogni tempo e nei confronti di chiunque, ma si estende anche alle informazioni per le quali la diffusione (pur prevista in un momento successivo) sia vietata (in tal senso, ex multis: Cass. pen., n. 15950/2015). La condotta è punita a titolo di dolo generico.

Diversamente, il comma terzo della disposizione in esame punisce a titolo di dolo specifico il p.u. o l’i.p.s. che si avvale illecitamente di notizie d’ufficio coperte da segreto. Si tratta di una condotta caratterizzata dallo scopo precipuo con cui l’agente agisce, ovverosia quello di procurare a sé o ad altri un indebito profitto.

Risponderà dunque, ex art. 326 c.p. il pubblico funzionario o l’incaricato di un pubblico servizio, che al fine di agevolare indebitamente un terzo soggetto, si avvalga delle notizie riservate di cui dispone in virtù del proprio ufficio e le divulghi.

Quanto al ruolo del privato cittadino che, privo della qualifica soggettiva richiesta dalla norma in esame, concorra con il pubblico funzionario nella condotta delittuosa, vi è contrasto tra gli interpreti.

Da un lato, vi è chi sostiene la possibilità di un concorso dell’extraneus nel reato in parola, qualora riveli ad altri o divulghi in altro modo la notizia ricevuta dal cd. intraneus (in tal senso, Cass. pen., 42109/2009; 30968/2007). La più recente giurisprudenza lega invece la punibilità a titolo di concorrente del privato, alla circostanza che questi abbia in qualche modo istigato o indotto il pubblico ufficiale alla rivelazione (si veda ad es. Cass. pen., 5842/2011; Cass. pen. 34717/2008).

Risulta, dunque, possibile in astratto affermare il concorso del comune cittadino nel reato proprio in oggetto, quando nel caso concreto ne ricorrano i presupposti.

In merito alla seconda questione critica proposta, preme svolgere alcune osservazioni in tema di turbativa della libertà degli incanti. Il reato ex art. 353 c.p. è delitto posto anch’esso a tutela degli interessi del funzionamento e dell’immagine della pubblica amministrazione, garantendo altresì la libera concorrenza e il gioco della maggiorazione delle offerte (così: Cass. pen., n. 20621/2007).

Quanto alla natura giuridica, si tratta di un reato comune (salvo l’aggravante di cui al secondo comma prevista quando agente sia un pu), di pericolo, a condotta vincolata. Infatti, il delitto deve essere posto in essere con violenza o minaccia, con doni, promesse, collusioni o con altri mezzi fraudolenti ed è volto ad impedire o turbare la gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private per conto di pubbliche amministrazioni, ovvero ad allontanarne gli offerenti. Tali condotte sono punite a titolo di dolo generico.

Ai fini di una maggiore chiarezza sul punto, è necessario operare un rapido confronto con la fattispecie di cui all’art. 353 bis c.p., al fine di escludere tale ultima fattispecie nel caso in esame. La disposizione in parola prevede una pena analoga all’art. 353 per colui che con violenza, minaccia, doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti, turba il procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando o di altro atto equipollente al fine di condizionare le modalità di scelta del contraente da parte della pubblica amministrazione. Appare ictu oculi evidente la parziale sovrapponibilità tra le due fattispecie in esame il cui discrimen va rinvenuto, nel momento in cui intervengono le turbative da un lato e, dall’altro, nelle conseguenze successive alla condotta stessa dall’altro. In altre parole, astrattamente può dirsi che l’art. 353 bis c.p. punisce la condotta di chi altera o manomette i contenuti del procedimento di selezione, in un momento che è certamente anteriore alla gara. Viceversa, l’art. 353 c.p. punisce la turbativa della gara, in ciò comprendendo certamente le illecite alterazioni intervenute nel corso della gara. A ben guardare, tuttavia, anche gli interventi illeciti ad essa precedenti e che, tuttavia, col verificarsi della gara si riverberino sulla stessa vengono ricompresi nel novero delle condotte punibili ai sensi dell’art. 353 c.p.. Ciò significa che, ogni qualvolta la gara poi venga ad esistenza, seppure in sé e per sé non svolta in violazione delle regole poste, l’alterazione ad esempio delle condizioni imposte dal bando di gara in un momento precedente, dev’essere punita ai sensi dell’art. 353 c.p. che assorbe, in base al cd. principio di consunzione, la fattispecie residuale (in virtù della clausola iniziale di riserva) di cui all’art. 353 bis c.p.

È allora evidente, come nel caso di specie debba propendersi per l’applicazione dell’art. 353 c.p. e non del diverso 353 bis c.p.

In merito, infine, all’ultimo rilievo critico esposto, deve pacificamente affermarsi la possibilità del concorso materiale tra le condotte di cui agli artt. 326 c.p. e 353 c.p., parzialmente diverso essendo il bene giuridico tutelato dalla norma e diversa essendo la condotta che le due norme prevedono. Diversamente si sarebbe dovuto concludere nell’ipotesi di applicazione dell’art. 353 bis c.p., il quale, come precisato supra è fattispecie residuale applicabile qualora non sussista più grave reato.

Operate le necessarie valutazioni sul piano astratto, si rende ora opportuno svolgere alcune considerazioni in riferimento al caso di specie.

Invero, Tizio facendo leva sul pregresso rapporto di amicizia  e, dunque, per il tramite di una condotta collusiva nei confronti del pubblico funzionario Mevio, lo induceva a consegnargli la documentazione segreta in vista del bando di gara. In tal senso, dovrà riconoscersi una responsabilità di Mevio ai sensi dell’art. 326comma terzo c.p. e, a titolo di concorrente extraneus nel reato proprio, ai sensi dell’art. 110 c.p. anche di Tizio. Egli, infatti, si è personalmente mobilitato per ottenere le informazioni necessarie, utilizzando la sua relazione amicale per convincere Mevio. Per tale ragione e alla luce della giurisprudenza sopra richiamata deve riconoscersi una sua responsabilità a titolo di concorso.

Allo stesso modo, Tizio e Mevio potranno essere chiamati a rispondere del reato di cui all’art. 353 c.p. (comma secondo con riferimento a Mevio per la sua qualità di pubblico ufficiale), poiché la loro condotta che in maniera poco chiara dalla traccia pare essersi svolta interamente precedentemente allo svolgimento della gara, in ogni caso ha turbato la stessa. Invero, non solo tra Mevio e Tizio si è avuto uno scambio di notizie destinate a rimanere segrete, ma altresì, Mevio su specifica indicazione di Tizio ha proceduto a modificare le condizioni del bando di gara sì da favorire la società Alfa, facente capo all’amico Tizio.

Sembra dunque potersi concludere che Tizio e Mevio risponderanno, in concorso tra loro, dei reati ex artt. 326 co.3 e 353 c.p. in concorso materiale tra loro, potendo semmai, richiedere l’applicazione dell’art. 81 cpv. in virtù del medesimo disegno criminoso sotteso alle condotte dei due.

Tale approdo appare confermato dalla recente pronuncia di Cass. pen. n. 4896/2015 secondo cui: “integra il reato di rivelazione di segreti d’ufficio, previsto dall’art. 326 c.p., la comunicazione anticipata ad una delle imprese concorrenti, da parte del direttore amministrativo di un’Azienda Ospedaliera, dal contenuto di un bando relativo ad una gara d’appalto per l’affidamento dei servizi di competenza aziendale”.