Con l’ordinanza 11749/2018, la sezione III della Corte di cassazione effettua un’importante ricognizione sulla risarcibilità delle conseguenze dannose derivanti dalla mancata acquisizione del consenso del paziente al trattamento medico.
L’occasione è offerta dalla vicenda riguardante un soggetto che veniva sottoposto ad un intervento di chirurgia oftalmica senza essere stato prima reso edotto del tipo di intervento, dei suoi rischi e delle possibili complicanze.
La Corte di cassazione afferma che la mancata acquisizione del consenso -non giustificata dallo stato di necessità di cui all’art. 54 c.p.-, pur in assenza di un pregiudizio alla salute causato dall’intervento, attribuisce al paziente il diritto di ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali consistenti nella perdita della possibilità di esercitare consapevolmente la scelta di sottoporsi all’intervento, di differirne l’esecuzione ovvero di eseguirlo altrove.
Seguendo la tradizionale ripartizione tra danno-evento e danno-conseguenza nella struttura dell’illecito aquiliano, la suprema Corte ribadisce alcuni principi consolidati nella giurisprudenza di legittimità.
L’evento dannoso consiste nella lesione del diritto all’autodeterminazione, garantito dal consenso informato quale “espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico”, tutelato sia dalla Costituzione, agli articoli 2, 13, 32 sia da numerose Convenzioni internazionali, quali la Convenzione di Oviedo, di New York e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Il danno-conseguenza consiste, invece, nella sofferenza e contrazione della libertà del paziente di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente; nella eventuale modificazione anatomica che il paziente subisce per effetto dell’intervento, sebbene questo abbia un esito terapeutico positivo; nel c.d. “effetto sorpresa”, cioè nella “minore predisposizione psichica” a subire l’intervento, non avendo potuto vagliarne l’effettiva utilità, nonché ad accettarne le relative implicazioni, quali una convalescenza lunga e dolorosa.
Quanto all’onere probatorio, la risarcibilità di tali pregiudizi non esige una specifica prova, perché si tratta di danni-conseguenza che rientrano in una sequenza causale normale della violazione dell’obbligo informativo, secondo l’id quod plerumque accidit (in questo senso, Cass. civ. 16503/2017).
Il paziente, dunque, non deve provare i pregiudizi non patrimoniali subiti in conseguenza della mancata acquisizione del consenso, al fine di ottenerne il risarcimento.
La suprema Corte compie un’ulteriore precisazione.
Qualora l’intervento svolto senza acquisizione del consenso e correttamente eseguito cagioni altresì un danno alla salute, il paziente può ottenere il ristoro dei pregiudizi che ne derivano, oltre a quelli scaturenti normalmente dalla mancata acquisizione del consenso.
Tuttavia, in questo caso il paziente deve dimostrare il nesso causale tra la mancata acquisizione del consenso e il danno alla salute. Più precisamente, il paziente deve provare, anche tramite presunzioni, che ove informato avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento (in questo senso, tra le altre, Cass. civ. 2998/2016; Cass. civ. 24074/2017).
[Avv. Martina Fusato]
Cassazione civile, sez. III, 6/2/2018 dep. 15/5/2018 n. 11749
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ULIANA ARMANO – Presidente –
Dott. MARIO CIGNA – Consigliere –
Dott. LUIGI ALESSANDRO SCARANO -Consigliere-
Dott. GABRIELE POSITANO – Consigliere –
Dott. PAOLO SPAZIANI – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso 28584-2015 proposto avverso la sentenza n. 2397/2015 della Corte d’Appello di Napoli, depositata il 27/5/2015; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 6/2/2018 dal Consigliere dott. Paolo Spaziani.
FATTI DI CAUSA
La Corte di Appello di Napoli ha respinto l’appello proposto da (omissis) avverso la sentenza del Tribunale della stessa città con cui era stata rigettata la domanda da lui formulata nei confronti del chirurgo (omissis) (che aveva chiamato in garanzia la (omissis) (omissis) s.p.a.) e della (omissis) s.r.l., società di gestione della casa di cura (omissls), avente ad oggetto la condanna al risarcimento dei danni occorsigli in seguito all’intervento di chirurgia oftalmica (“cataratta sottocapsulare all’occhio sinistro, sfociata in trapianto di cornea”), effettuato all’interno della predetta casa di cura e conseguiti alla violazione, da parte del medico, dell’obbligo di renderlo edotto, tramite il consenso informato, del tipo di intervento, dei suoi rischi e delle possibili complicanze.
La Corte territoriale ha rigettato l’impugnazione pur rilevando che che, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, l’appellante aveva tempestivamente allegato che, ove fosse stato adeguatamente informato dei rischi connessi all’intervento, si sarebbe rifiutato di sottoporvisi.
In proposito, la Corte di Appello – dopo aver ricordato che la violazione del dovere di informazione può causare due diversi tipi di danno, quello da lesione del diritto alla salute (risarcibile quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti) e quello da lesione del diritto all’autodeterminazione in sé considerato – ha ritenuto, con riguardo al primo pregiudizio, che non fosse stata criticata la sentenza impugnata né nella parte in cui aveva ritenuto che l’attore non avesse dato la prova che egli avrebbe rifiutato il suo consenso all’intervento qualora fosse stato debitamente informato dei rischi e delle possibili complicanze né nella parte in cui aveva escluso che tale circostanza potesse ritenersi dimostrata sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti; e, con riguardo al secondo pregiudizio, che l’appellante non avesse indicato in nessun modo quali fossero stati, in concreto, i pregiudizi non patrimoniali, diversi da quello alla salute, da lui subiti in seguito alla mancanza di informazione, né avesse chiarito in cosa fossero consistite le “sofferenze fisiche e psichiche” genericamente allegate quale conseguenza del deficit informativo.
Propone ricorso per cassazione (omissis) , affidandosi a cinque motivi.
Risponde con controricorso la (omissis) s.r.l..
Gli altri intimati ( (omissis) e (omissis)
s.c.p.a.) non svolgono attività difensiva.
Il ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla controricorrente per pretesa violazione dell’art.366, primo comma, n. 3, c.p.c., atteso che, al contrario, l’illustrazione dei motivi di ricorso viene debitamente fatta precedere dalla sommaria esposizione dei fatti della causa, in piena conformità al richiamato disposto normativo.
Per ragioni di connessione vanno esaminati congiuntamente i primi due motivi.
Con il primo motivo («nullità assoluta della sentenza in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c. per insanabile contrasto tra parte motiva e dispositivo della sentenza impugnata») il ricorrente si duole che la Corte territoriale, mentre, per un verso, ha reputato fondato il motivo di appello con cui la sentenza di primo grado era stata censurata nella parte in cui aveva ritenuto che solo in comparsa conclusionale l’attore avesse formulato l’allegazione secondo la quale egli si sarebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento chirurgico qualora fosse stato adeguatamente informato dei rischi ad esso connessi (ciò sul rilievo che tale allegazione figurava invece già nel verbale della prima udienza), per altro verso, non abbia dato atto dell’accoglimento di tale motivo di appello nel dispositivo della sentenza, con il quale il gravame è stato integralmente rigettato. Deduce che l’insanabile difformità tra la motivazione e il dispositivo avrebbe determinato la nullità della sentenza.
Con il secondo motivo («violazione e falsa applicazione dell’art. 13 comma 1-quater c. n. 1-bis d.P.R. 115/2002 come modificato dalla I. 228/2012 in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.») il ricorrente censura la sentenza impugnata per aver dato atto della sussistenza dei presupposti per il raddoppio del contributo unificato. Deduce che, ai sensi del citato art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002 (inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228/12), l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato grava sulla parte che ha proposto l’impugnazione soltanto quando questa sia integralmente respinta o dichiarata inammissibile o improcedibile, mentre, nel caso di specie, l’appello era stato parzialmente accolto.
Gli illustrati motivi sono infondati.
La Corte di Appello ha bensì corretto la decisione di primo grado nella parte in cui aveva ritenuto tardiva l’allegazione attorea secondo cui, ove non fosse stato violato dal medico il dovere di informazione, il paziente si sarebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento, ma, dopo aver ritenuto la tempestività di tale allegazione, ha reputato che la stessa fosse rimasta sfornita di prova, addivenendo coerentemente ad una decisione di conferma della sentenza di primo grado e di rigetto integrale dell’impugnazione.
Non sussiste, pertanto, né il dedotto contrasto tra la motivazione e il dispositivo né la lamentata illegittimità della declaratoria di sussistenza dei presupposti per il raddoppio del contributo unificato.
Va ora esaminato il quarto motivo, con il quale viene denunciata «violazione dell’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c. per la non decisione della Corte di Appello sulla domanda di accertamento allegata dal ricorrente relativamente al mancato consenso informato da parte del (omissis)».
Il motivo è inammissibile in quanto, facendosi riferimento all’omessa pronuncia su una domanda di accertamento – e dunque denunciandosi in sostanza la violazione dell’art. 112 c.p.c. – esso avrebbe dovuto essere esposto mediante la sussunzione del vizio nella fattispecie di cui all’art. 360 n. 4 c.p.c.. La circostanza che il ricorrente abbia invece indebitamente inteso far valere un error in procedendo ai sensi dell’art.360 nn.3 e 5 c.p.c., senza fare alcun riferimento alle conseguenze (nullità del procedimento e della sentenza) derivanti dall’errore sulla legge processuale, impone la declaratoria di inammissibilità del motivo di ricorso in esame, in applicazione del consolidato orientamento di questa Corte secondo cui, pur non essendo indispensabile la formale ed esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al numero 4 del primo comma dell’art.360 c.p.c., è peraltro necessario che il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dal vizio denunciato, dovendosi reputare inammissibile il gravame che si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (Cass. Sez. U, 24/07/2013, n.17931; v. anche Cass. 17/09/2013, n.21165, e, più recentemente, Cass. 28/09/2015, n. 19124).
Devono infine essere congiuntamente esaminati il terzo e il quinto motivo, anche questi avvinti da ragioni di connessione.
Con il terzo motivo («violazione e falsa applicazione del diritto al consenso informato e del conseguente danno alla salute di cui agii artt. 1223, 2056, 1218, 1337 c.c., artt. 13 e 32 Cost., I. n. 833/78 art. 33, nonché insufficiente motivazione in relazione agli artt. 360 n. 3 e 5 c.p.c.») il ricorrente si duole del mancato riconoscimento dei danni conseguenti alla violazione, da parte del medico, del dovere di informarlo adeguatamente dei rischi e delle complicanze connesse all’intervento chirurgico, prima di dar corso allo stesso. Deduce che il consenso informato, diritto irretrattabile della persona, deve essere sempre acquisito dal sanitario, salvi i casi d’urgenza, e che il risarcimento del danno per la lesione del diritto all’autodeterminazione prescinde dalla riscontrata correttezza tecnica dell’intervento medico praticato. Sostiene, che alla luce della più recente giurisprudenza di legittimità, la lesione del diritto al consenso informato dà luogo a conseguenze dannose risarcibili, consistenti nella perdita della possibilità di autodeterminarsi in ordine alle scelte da prendere in relazione all’intervento sanitario.
Con il quinto motivo («violazione e falsa applicazione degli artt. 2059 e 2043 – 2057-2056 c.c. ed omesso esame di un punto decisivo per il giudizio, ex art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.») il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che egli, con riguardo al danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, non avesse indicato in nessun modo quali fossero stati, in concreto, i pregiudizi non patrimoniali, diversi da quello alla salute, da lui subiti in conseguenza della mancanza di adeguata informazione. Deduce che la Corte di Appello avrebbe omesso di considerare che egli aveva debitamente allegato le conseguenze dannose facendo riferimento alla CTU versata in atti. Sostiene che, sulla base della CTU, la quale aveva dato conto del danno alla salute, il giudice avrebbe potuto equitativamente determinare le ulteriori conseguenze dannose non patrimoniali, sub specie di sofferenza morale e di lesione di altri interessi della persona costituzionalmente tutelati.
Gli illustrati motivi sono inammissibili nella parte in cui denunciano insufficiente motivazione ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., atteso che, per effetto della nuova formulazione di detta disposizione – applicabile alle sentenze pubblicate dopo il giorno 11 settembre 2012, e dunque anche alla sentenza impugnata con l’odierno ricorso, depositata il 27 maggio 2015 -, il controllo sulla motivazione può investire esclusivamente l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, la quale sussiste nelle sole ipotesi di «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico», di «motivazione apparente», di «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e di «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile», sicché il sindacato sulla motivazione è possibile solo con riferimento al parametro dell’esistenza e della coerenza, non anche con riferimento al parametro della sufficienza (Cass. Sez. U. 07/04/2014, nn. 8053 e 8054; v. anche Cass. 08/10/2014, n. 21257 e Cass. 12/10/2017, n. 23940).
Nella parte in cui denunciano violazione di legge ex art. 360 n. 3 c.p.c., i motivi in esame sono invece fondati e devono essere accolti, per quanto di ragione.
Va premesso che, secondo la definizione datane dal giudice delle leggi (Corte Cost. 23 dicembre 2008, n.438), condivisa da questa Corte (Cass. 09/02/2010, n. 2847), il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32, secondo comma, Cost., i quali stabiliscono rispettivamente che «la libertà personale è inviolabile» e che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge».
La necessità del consenso informato del paziente nell’ambito dei trattamenti medici, già prevista da numerose norme internazionali (art. 24 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176; art. 5 della Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, ratificata con legge 28 marzo 2001, n. 14; art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000), nel nostro ordinamento è oggi contemplata dall’art. 1 della legge n. 219 del 2017 (il quale tutela espressamente il diritto all’autodeterminazione della persona e regola le modalità di ricezione delle informazioni e di espressione e documentazione del consenso) ma già in precedenza si desumeva dai citati precetti costituzionali, nonché da numerose norme di legge ordinaria, quali l’art. 3 della legge 21 ottobre 2005, n. 219 (in tema di disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale degli emoderivati), l’art. 6 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (in materia di procreazione medicalmente assistita) e l’art. 33 della legge n. 833 del 1978, che esclude la possibilità di accertamenti e trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p..
L’obbligo del sanitario di acquisire il consenso informato del paziente costituisce, pertanto, legittimazione e fondamento del trattamento, atteso che, senza la preventiva acquisizione di tale consenso, l’intervento del medico è, al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità, sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente (Cass. 16/10/2007, n.21748).
L’obbligo ha per oggetto l’informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento prospettato ed in particolare la possibilità del verificarsi, in conseguenza dell’esecuzione dello stesso (Cass. 13/04/2007, n. 8826; Cass. 30/07/2004, n. 14638), di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente, onde porre quest’ultimo in condizione di consentire consapevolmente al trattamento medesimo (Cass. 14/03/2006, n. 5444). Il medico ha pertanto il dovere di informare il paziente in ordine alla natura dell’intervento, nonché in ordine alla portata dei possibili e probabili risultati conseguibili e delle implicazioni verificabili.
Poiché l’obbligo informativo del medico si correla al diritto fondamentale del paziente all’espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario propostogli, la prestazione che ne forma oggetto costituisce una prestazione distinta da quella sanitaria, la quale è finalizzata alla tutela del (diverso) diritto fondamentale alla salute. Di conseguenza, la violazione dell’obbligo assume autonoma rilevanza ai fini dell’eventuale responsabilità risarcitoria del sanitario, in quanto, mentre l’inesatta esecuzione del trattamento medico-terapeutico determina la lesione del diritto alla salute (art. 32, primo comma, Cost.), l’inadempimento dell’obbligo di acquisizione del consenso informato determina la lesione del (diverso) diritto fondamentale all’autodeterminazione del paziente (Art. 32, secondo comma, Cost.) (Cass. 05/07/2017, n. 16503).
In altre parole, vengono in considerazione due diritti fondamentali diversi, entrambi costituzionalmente tutelati: la responsabilità per lesione del diritto alla salute consegue all’Inesatta esecuzione della prestazione medico-terapeutica e può configurarsi anche in presenza di consenso consapevole; la responsabilità per lesione del diritto all’autodeterminazione consegue alla violazione del dovere di informazione e può configurarsi anche in assenza di danno alla salute, allorché l’intervento terapeutico abbia un esito assolutamente positivo (Cass. 12/06/2015, n. 12505).
Può peraltro accadere che la lesione della salute sia causalmente collegabile alla violazione dell’obbligo informativo.
Ciò si verifica nell’ipotesi in cui l’intervento sanitario, non preceduto da un’adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, sia stato correttamente eseguito in base alle regole dell’arte ma da esso siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute.
In tal caso la violazione del dovere di informazione non determina soltanto il danno da lesione del diritto all’autodeterminazione in sé considerato, ma anche il danno alla salute, che non è causalmente riconducibile all’inesatta esecuzione della prestazione sanitaria ma alla mancata corretta informazione, allorché debba ragionevolmente ritenersi che, se questa fosse stata data, il paziente avrebbe deciso di non sottoporsi all’intervento e di non subirne le conseguenze invalidanti (Cass. 16/05/2013, n. 11950).
Quando si alleghi che la violazione dell’obbligo di acquisire il consenso informato abbia determinato (anche) un danno alla salute, è, peraltro, necessario dimostrare il nesso causale tra questo danno e quella violazione: il medico può essere quindi chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento, non potendo altrimenti ricondursi all’inadempimento dell’obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute (Cass. 09/02/2010, n. 2847; Cass. 30/03/2011, n. 7237; Cass.27/11/2012, n. 20984; Cass. 16/02/2016, n. 2998; Cass. 13/10/2017, n. 24074).
Questa prova non è invece necessaria ai fini dell’autonoma risarcibilità del danno da lesione del diritto all’autodeterminazione in sé considerato.
È stato, invero, ripetutamente evidenziato da questa Corte (Cass. 12/06/2015, n. 12505; Cass. 05/07/2017, n. 16503) che la struttura di tale illecito deve essere ricostruita sulla base della necessaria distinzione, di rilievo generale in tema di fatto illecito civile, contrattuale o extracontrattuale, tra l’individuazione dell’evento che lo integra (c.d. danno-evento) e quella delle sue conseguenze dannose (c.d. danno-conseguenza), che fanno sorgere il diritto alla riparazione.
Il danno-evento è rappresentato dalla stessa esecuzione, da parte del medico, dell’intervento sulla persona del paziente senza la previa acquisizione del consenso. Esso risulta, dunque, dalla tenuta di una condotta omissiva seguita da una condotta commissiva.
Il danno-conseguenza, (indicato dall’art. 1223 c.c. come “perdita subita” o come “mancato guadagno”), è, invece, rappresentato dall’effetto pregiudizievole che la mancanza dell’acquisizione del consenso e, quindi, il comportamento omissivo del medico, seguito dal comportamento positivo di esecuzione dell’intervento, ha determinato sulla sfera della persona del paziente, considerata nella sua rilevanza di condizione psico-fisica posseduta prima dell’intervento, la quale, se le informazioni fossero state date, l’avrebbe portata a decidere sul se assentire la pratica medica.
Più analiticamente, questa Corte ha osservato (cfr. le citate Cass. 12/06/2015, n. 12505 e Cass. 05/07/2017, n. 16503) che le conseguenze dannose della violazione dell’obbligo informativo sono rappresentate: a) dalla sofferenza e dalla contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente, patite dal paziente in ragione dello svolgimento dell’intervento medico sulla sua persona, durante la sua esecuzione e nella relativa convalescenza; b) eventualmente, dalla diminuzione che lo stato del paziente subisce a livello fisico per effetto dell’attività demolitoria, che abbia eliminato, sebbene ai fini terapeutici, parti del corpo o la funzionalità di esse: poiché tale diminuzione si sarebbe potuta verificare solo se assentita sulla base dell’informazione dovuta e si è verificata in mancanza di essa, si tratta di conseguenza oggettivamente dannosa, che si deve apprezzare come danno-conseguenza indipendentemente dalla sua utilità rispetto al bene della salute del paziente, che è bene diverso dal diritto di autodeterminarsi rispetto alla propria persona; c) eventualmente, dalle “perdite” relative ad aspetti della salute, con riferimento alla possibilità che, se il consenso fosse stato richiesto, il paziente avrebbe potuto determinarsi a rivolgersi ad altra struttura e ad altro medico, qualora si riveli che sarebbe stata possibile in relazione alla patologia l’esecuzione di altro intervento meno demolitorio o determinativo di minore sofferenza.
Tanto chiarito, questa Corte ha anche rilevato (cfr., in particolare, Cass. 05/07/2017, n. 16503) che delle sequenze causali che diano esito nelle conseguenze suddette, almeno la prima (sofferenza e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente, patite dal paziente in ragione dello svolgimento dell’intervento medico sulla sua persona, durante la sua esecuzione e nella relativa convalescenza) corrisponde allo sviluppo di circostanze connotate da normalità, ovverosia da normale frequenza statistica, corrispondendo all’id quod plerumque accidit.
È, infatti, evidente che la mancata informazione determina in capo al paziente la perdita della possibilità di esercitare consapevolmente una serie di scelte tra cui quella di non sottoporsi all’intervento (eventualmente anche nell’ipotesi in cui lo stesso fosse assolutamente necessario ed indifferibile in relazione alle sue condizioni di salute, atteso che la libertà di autodeterminazione va riconosciuta usque ad supremum exitum) o quella di non sottoporvisi immediatamente (in tutte le ipotesi in cui l’intervento non risulti indifferibile e consenta al paziente uno spatium deliberandi utilizzabile per riflettere o per assumere ulteriori informazioni sulla sua utilità od indispensabilità) o, ancora, quella di indirizzarsi altrove per la sua esecuzione.
Ed è altrettanto evidente che la perdita della possibilità di esercitare tutte queste opzioni non solo concreta una privazione della libertà del paziente di autodeterminarsi circa la sua persona fisica (libertà che, costituendo un bene di per sé, quale aspetto della generica libertà personale, viene negata e, quindi, risulta sacrificata irrimediabilmente, sì che si configura come “perdita” di un bene personale) ma determina anche una sofferenza psichica, nella misura in cui, per un verso, preclude al paziente di beneficiare dell’apporto positivo che la loro fruizione avrebbe avuto sul grado di predisposizione psichica a subire l’intervento e le sue conseguenze (ove si consideri che, all’esito dell’assunzione di più dettagliate informazioni, eventualmente presso altra struttura ed altro medico, il paziente avrebbe potuto constatare che l’intervento prospettatogli si presentava come veramente utile od indispensabile, con ciò assumendo una miglior predisposizione ad accettarne le implicazioni), mentre, per altro verso, proietta ex post il paziente stesso nella situazione di turbamento psichico derivante dalla constatazione degli effetti negativi dell’intervento eseguito senza il suo consenso informato, allorché egli si domanda se non fosse stato possibile scegliere altre soluzioni, compresa quella di non sottoporvisi (cfr. Cass. 12/06/2015, n. 12505).
Al rilievo che il danno-conseguenza rappresentato dalla sofferenza e dalla contrazione della libertà di disporre di se stesso corrisponde allo sviluppo di circostanze connotate da normalità e all’id quod plerumque accidit in seguito alla violazione dell’obbligo informativo, consegue che la risarcibilità di tali perdite non esige una specifica prova.
Questa Corte ha infatti statuito che è da ritenersi immediata, siccome riferita al foro interno della coscienza dell’individuo, la compromissione della genuinità dei processi decisionali fondati su dati alterati o incompleti per incompletezza delle informazioni (Cass. 05/07/2017, n. 16503).
Pertanto, mentre in relazione alle ulteriori conseguenze dannose che non rientrano nella sequenza causale normale resta necessaria una specifica dimostrazione, in relazione al danno-conseguenza costituito dalla sofferenza e dalla contrazione della libertà di disporre di se stesso non occorre fornire alcuna prova specifica, ferme restando la possibilità di contestazione della controparte e quella del paziente di allegare e provare fatti a sé ancor più favorevoli di cui intenda giovarsi a fini risarcitori (Cass. 05/07/2017, n. 16503).
Applicando queste considerazioni generali al caso di specie, se da un lato appare conforme a diritto la decisione della Corte territoriale nella parte in cui ha escluso la risarcibilità del danno da lesione del diritto alla salute in tesi derivato dalla violazione dell’obbligo di acquisizione del consenso informato (in base all’accertamento – che costituisce oggetto di indagine di merito, non sindacabile in sede di legittimità – secondo il quale l’attore non aveva dato la prova che, ove fosse stato correttamente informato dei rischi e delle complicanze dell’intervento, avrebbe verosimilmente rifiutato di sottoporvisi, né tale prova era emersa a livello presuntivo), dall’altro lato deve invece ritenersi censurabile la medesima decisione nella parte in cui ha escluso la risarcibilità del danno da lesione del diritto all’autodeterminazione in sé considerato, sul rilievo che l’appellante non avesse indicato in nessun modo quali fossero stati, in concreto, i pregiudizi non patrimoniali, diversi da quello alla salute, da lui subiti in conseguenza della mancanza di adeguata informazione, né avesse chiarito in cosa fossero consistite le sofferenze fisiche e psichiche allegate quale conseguenza del deficit informativo.
In relazione a tale statuizione – ed in accoglimento, per quanto di ragione, dei motivi di ricorso in esame – la sentenza impugnata deve pertanto essere cassata con rinvio alla Corte di Appello di Napoli, in diversa composizione, la quale esaminerà la domanda di risarcimento del danno da lesione del diritto all’autodeterminazione in tesi causato dalla violazione dell’obbligo di acquisizione del consenso informato, uniformandosi ai principi sopra illustrati.
Il giudice del rinvio provvederà, ai sensi dell’art. 385, terzo comma, c.p.c., anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo e il secondo motivo, dichiara inammissibile il quarto e accoglie, per quanto di ragione, il terzo e il quinto; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di Appello di Napoli, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
IL PRESIDENTE
Uliana Armano