Con la recente decisione n. 3197 del 7 febbraio 2017, la Cassazione è tornata ad occuparsi di un tema particolarmente delicato e nient’affatto scevro di conseguenze sul piano pratico, ribadendo l’orientamento già divisato, nel 2013, circa l’assoggettabilità a fallimento (e alle altre procedure concorsuali) delle società c.d. in house (e utilizzando, per vero, a sostegno della tesi propugnata, anche argomenti inediti, legati alla recente c.d. Riforma Madia, il cui decreto attuativo – il d.lgs. n. 175 del 2016 – s’è occupato di riformare la disciplina delle c.d. partecipate).

La Suprema Corte, pur riconoscendo che in tali soggetti, per la loro peculiare genesi, per lo specifico fine (para)pubblicistico dell’attività esercitata, per il caratterizzante rapporto con i soci pubblici detentori del capitale e per l’esercizio, comunque, di un’attività di impresa in un regime astrattamente concorrenziale, coesistono dinamiche pubblicistiche e meccanismi privatistici, ha evidenziato che dal concorso di norme di diritto pubblico e di diritto privato non può desumersi l’esistenza di una qualche previsione che escluda che una società commerciale, organizzata in forma imprenditoriale, possa essere sottratta alla disciplina fallimentare.

Segnatamente, il Collegio, decidendo dei ricorsi di alcuni creditori e di un ex amministratore di un veicolo, con capitale essenzialmente pubblico, creato per la valorizzazione (e l’alienazione) del patrimonio immobiliare di un Comune lombardo, ha avuto modo di affermare – in continuità col precedente arresto n. 22209/2013 – che la possibilità offerta dal legislatore agli Enti pubblici di consentire l’esercizio di determinate attività mediante la costituzione di società di capitali “e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico”, comporta, per tali Enti (ma pure, a maggior ragione, per le società partecipate da essi costituite), l’assunzione dei rischi connessi ad una possibile insolvenza, “pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità”.

Enunciato il principio di diritto, la Cassazione ha giustificato la posizione assunta operando una ricognizione, a livello normativo, degli indici dai quali, a suo dire, si trarrebbe il predetto convincimento.

Ed invero, non soltanto la Corte ha richiamato il dato letterale dell’art. 1 del R.D. n. 267/1942, il quale esclude dalla disciplina del fallimento, solo gli “enti pubblici” e non, per converso, le “società pubbliche”, comunque denominate.

Ma la stessa ha pure sottolineato che già dalla disciplina vigente ratione temporis alla declaratoria di fallimento del veicolo pubblico in questione, si doveva desumere l’impossibilità d’operare una qualche distinzione tra società a capitale interamente (o a maggioranza) pubblico e altri “ordinari” operatori economici: ciò perché l’art. 4, co. 13, del d.l. n. 95 del 2012 (meglio noto come spending review) aveva esplicitato, in via di interpretazione autentica, la regola in forza della quale tutte le disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica, si dovevano interpretare “nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si [si sarebbe dovuta applicare] comunque la disciplina dettata dal codice civile in materia di società di capitali”.

Non da ultimo, i Giudici di ultima istanza hanno pure evidenziato che anche il decreto legislativo di attuazione della specifica delega governativa in tema di società partecipate da amministrazioni pubbliche (il d.lgs. n. 175 del 2016, sul quale, per vero, aleggiano i sospetti di incostituzionalità adombrati dalla sentenza n. 251/2016 della Corte costituzionale) ha riconosciuto la piena valenza di tale regola “equiparatrice”, inserendo una specifica previsione, all’art. 14, che fuga ogni perplessità in merito e che chiarisce, una volta per tutte, che le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento, sul concordato preventivo, ma pure (ove ovviamente ne sussistessero i presupposti) a quelle in materia di amministrazione straordinaria della Legge Marzano e della Legge Prodi.

Non limitandosi agli argomenti di carattere formale (di per sé già decisivi nell’escludere ogni sperequazione tra “imprenditori” privati e pubblici), la Cassazione ha pure evidenziato che, a sovvertire l’assetto testé ricordato, non sovvengono:

  1. la nozione di organismo di diritto pubblico, elaborata, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, dai T.A.R. e dal Consiglio di Stato, giacché tale figura (che come è noto individua le “articolazioni” degli Enti pubblici che soggiacciono agli obblighi di carattere specificamente pubblicistico, quali l’indizione di procedure ad evidenza pubblica per l’acquisizione di beni e di servizi), perché tale concetto risulta irrilevante per l’attività con finalità lucrative della società in house (o a partecipazione pubblica), concernendo, invece, specifici doveri (quelli di affidamento di lavori e servizi) che nulla hanno a che fare con “l’impresa commerciale” in sé e per sé considerata (essendo questa esercitata in regime concorrenziale e privatistico);
  2. la sussistenza del c.d. “controllo analogo” da parte dell’Ente pubblico di riferimento, giacché l’esistenza di poteri di vigilanza, di coordinamento e di indirizzo nei confronti della società partecipata assimilabili alle prerogative che l’Ente esercita nei confronti dei propri dipendenti (e, più in generale, dell’attività istituzionale) non determinano una “sovraqualificazione” del soggetto in questione rispetto al tipo societario assunto, ma caratterizzano semplicemente l’intensità dei poteri nei suoi confronti esercitabili dal socio pubblico;
  3. la sottoposizione degli amministratori e degli altri dipendenti della società in house a specifiche regole del diritto pubblico, quali quelle attinenti alla responsabilità erariale e contabile, dato che ciò implica sì una responsabilità aggiuntiva in capo a tali soggetti, ma non fa certo discendere, per la società, “l’effetto di perdere l’applicazione dello statuto dell’imprenditore”.

A contrario, la Corte ha voluto altresì precisare che altri elementi – di carattere, questa volta, sistematico – forniscono l’ulteriore riprova della fallibilità delle società partecipate:

  1. da un lato, infatti, l’esclusione di una società in house dalla disciplina del fallimento comporterebbe una lesione del legittimo affidamento dei terzi che, in ragione dell’iscrizione di tali soggetti al sistema di pubblicità legale del registro delle imprese, confidano che anche ad essi sia applicabile l’ordinario regime di diritto societario (che contempla, in caso di insolvenza, pure il ricorso a procedure concorsuali);
  2. dall’altro, la sussistenza, in ogni caso, di una netta separazione tra Ente pubblico e società partecipata, costituendo principio dell’ordinamento quello secondo cui la società di capitali costituisce soggetto diverso e separato dal socio, il quale, anzi, costituendolo, ha la garanzia che il proprio patrimonio non venga intaccato dai creditori della società; e costituendo, per converso, pure noto principio che il regime societario sfugga a quello proprio del soggetto controllante.

La Cassazione, insomma, è parsa voler perentoriamente fugare ogni perplessità in ordine alla piena equiparazione delle società in house (e più in generale delle società partecipate) alle società di diritto privato, anche per quel che attiene i momenti di “crisi societaria”, a voler ribadire che – operi o non operi il d.lgs. n. 175/2016 (o se si preferisce, sia o non sia esso dichiarato, un domani, incostituzionale), le società pubbliche potevano (e possono) fallire.

 

 

IL PROCESSO

Con distinti ricorsi L’area verde di Volonté Teresina & co. S.n.c. (per prima notificante e dunque ricorrente in via principale) e Massimo Morandi (ricorrente in via incidentale) impugnano la sentenza App. Milano 17.7.2014 n. 2773/14 in R.G. 892 e 893/2014, resa al termine del giudizio in cui tanto la prima (insieme ad altri creditori) quanto il secondo (nella qualità di ex amministratore) contestavano la sentenza Trib. Como 17.2.2014 n.16 dichiarativa del fallimento della società Mozzate Patrimonio s.r.l.

La corte d’appello, nel rigettare i reclami interposti ex art. 18 l.f., superata l’eccezione del difetto di legittimazione degli impugnanti, confermò la fallibilità della società Mozzate Patrimonio s.r.l., nonostante la partecipazione al rispettivo capitale del Comune di Mozzate, tenuto conto della qualità di società commerciale della medesima, così realizzandosi in capo ad essa l’assunzione, con l’iscrizione al registro delle imprese, della qualità di imprenditore commerciale. Condividendo l’indirizzo che esclude una possibile indifferenza, ai fini fallimentari, della natura di soggetto privato delle citate società, precisò la corte che nessuna influenza poteva ascriversi all’attività svolta, allo scopo perseguito, all’organizzazione interna. E pur considerando in ipotesi gli eventuali limiti allo statuto privatistico in caso di società in kouse – cioè la società istituita per finalità di gestione di pubblici servizi, con soci pubblici, attività in prevalenza verso gli stessi e soggetta a controllo analogo a quello che questi esercitano sui propri uffici -, doveva nel caso concreto escludersi che Mozzate Patrimonio s.r.l. rivestisse tale natura, per difetto del requisito caratterizzante il citato controllo analogo da parte del Comune, socio al 97,76%, ciò sulla base di quanto accertato dalla Corte dei Conti in sede di diniego dei presupposti dell’affidamento diretto di servizi comunali.

Il ricorso di L’area verde di Volontè Teresina & co. S.n.c. è su due motivi, quello di Massimo Morandi su due motivi, ad essi resistendo con controricorso il fallimento e il Comune di Mozzate. Tutte le parti hanno depositato memoria, il fallimento in via ulteriore.

I FATTI RILEVANTI DELLA CAUSA E LE RAGIONI DELLA DECISIONE

Sul ricorso principale di L’area verde di Volonté Teresina & co. S.n.c.

Con il primo motivo si deduce la violazione dell’art. 1 l.f., mancando i requisiti soggettivi di fallibilità in capo alla società debitrice, perché organismo di diritto pubblico non fallibile ovvero società in house providing.

Con il secondo motivo viene dedotto il vizio di motivazione sugli stessi punti, non essendo stato esaminato il fatto della tipologia di società in house della fallita, come determinatasi in particolare a seguito dei contratti di servizio con il Comune partecipante.

Sul ricorso incidentale di Massimo Morandi.

Con il primo motivo si deduce la violazione dell’art. 1 l.f, mancando i requisiti soggettivi di fallibilità in capo alla società debitrice, perché in house providing sin dal 2012 e di fatto avente natura giuridica pubblica.

Con il secondo motivo viene dedotto il vizio di motivazione sugli stessi punti, non essendo stato esaminato il fatto della tipologia di società in house della fallita, come determinatasi in particolare a seguito dei contratti di servizio con il Comune partecipante, che dal 2012 istituivano il controllo analogo con l’ente pubblico.

1. I motivi di entrambi i ricorsi, da trattare congiuntamente per l’intima connessione, sono infondati. Sulla premessa che i termini di diritto pubblico corrispondenti sono, ratione temporis, anteriori alla rinnovata legislazione in tema di appalti (varata con il d.lgs. 18 aprile 2016, n.50) e di società pubbliche ( d.lgs. 19 agosto 2016, n.175), la questione concerne la fallibilità o meno di una società, costituita secondo le forme della società a responsabilità limitata, affidataria da parte dell’ente territoriale pubblico partecipante di plurimi servizi di gestione del relativo patrimonio, nell’ambito di un rapporto disputato quanto alla prossimità al controllo analogo, proprio delle società in house.

Ritiene il Collegio, in conformità al precedente n. 22209 del 2013, che debba andar ribadito il principio per cui “In tema di società partecipate dagli enti locali, la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali, e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità”.

Osserva invero il citato arresto, con notazione pertinente ad una possibile risposta anche alle contestazioni degli odierni ricorrenti, che “proprio dall’esistenza di specifiche normative di settore che, negli ambiti da esse delimitati, attraggono nella sfera del diritto pubblico anche soggetti di diritto privato… può ricavarsi a contrario, che, ad ogni altro effetto, tali soggetti continuano a soggiacere alla disciplina privatistica.”. Vanno così respinte le suggestioni dirette ad una compenetrazione sostanzialistica tra tipi societari e qualificazioni pubblicistiche, al di fuori della riserva di legge di cui all’art.4 della legge n.70 del 1975 che vieta la istituzione di enti pubblici se non in forza di un atto normativo, così ponendo un argine ad una ricognizione interpretativa che assuma dai tratti materiali dell’attività quel titolo ad ogni effetto nei rapporti con i terzi. E per vero, va anche ricordato che lo stesso art. 1 l.f. disegna l’area di esenzione dalle procedure concorsuali attorno agli “enti pubblici’, non alle società pubbliche. D’altronde lo stesso legislatore ha avuto modo di chiarire, all’art. 4, co. 13, del d.l. n. 95 del 2012 (cd. spending review) (vigente (vigente all’epoca della dichiarazione di fallimento Trib. Como 17.2.2014 e poi abrogata, per il periodo d’interesse, dal d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175), la sussistenza di una norma generale di rinvio alla disciplina codicistica, secondo cui “le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina dettata dal codice civile in materia di società di capitali’. Tale norma può essere richiamata come ulteriore conferma dell’indirizzo qui applicato, dunque in chiave di concorrente interpretazione autentica e chiusura. Essa poi è stata ripresa dal nuovo arti co.3 d.lgs. n. 175 del 2016 (“Per fatto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato”). L’art. 14 d.lgs. n.175 del 2016 infine, con disposizione che prende atto di un indirizzo maturato nella giurisprudenza concorsuale, ha a sua volta precisato che “Le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi di cui al decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, e al decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39”.

2. Né possono soccorrere altri istituti che si voglia piegare nel senso della sollecitata sovrapposizione di norme e definizioni con oggetto l’attività (e non il soggetto che la esercita), mutuando categorie della giurisprudenza amministrativa. In particolare, per quel che qui giova indicare, il Collegio ribadisce la non appropriatezza del ricorso alla figura dell’organismo di diritto pubblico, che nasce a qualificare gli operatori al cospetto delle amministrazioni aggiudicatrici, tenute, nella scelta del contraente, al rispetto della normativa comunitaria e dei procedimenti di evidenza pubblica di fonte statale o regionale. L’art. 3, co. 26, del codice degli appalti vigente pro temporis (d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, in vigore fino al 18.4.2016) ebbe chiaramente a statuire che, quanto a lavori, servizi e forniture, soltanto “ai fini del codice” stesso è dettata la definizione di “organismo di diritto pubblico… qualsiasi organismo, anche in forma societaria: – istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale; – dotato di personalità giuridica; – la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico”. Il profilo pubblicistico della società in house, in cui l’ente pubblico esercita sulla società un controllo analogo, quantomeno per prerogative ed intensità, a quello esercitato sui propri servizi ed uffici, appare allora ispirato – in realtà – dal mero obiettivo di eccettuare l’affidamento diretto (della gestione di attività e servizi pubblici a società partecipate) alle citate norme concorrenziali, ma senza che possa dirsi nato, ad ogni effetto e verso i terzi, un soggetto sovraqualificato rispetto al tipo societario eventualmente assunto. Su tale società, in questi casi, per quanto intesa come articolazione organizzativa dell’ente, ove posta in una situazione di delegazione organica o addirittura di subordinazione gerarchica, alla luce di una disamina materiale, si determina solo una responsabilità aggiuntiva (contabile) rispetto a quella comune — secondo i dettami di Cass. s.u. 26283/2013, poi ripresi dall’art.12 d.lgs. n.175 del 2016 — ma senza il prospettato effetto di perdere l’applicazione dello statuto dell’imprenditore. Le norme speciali volte a regolare la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione dei suoi organi, non possono dunque incidere — come parimenti notato in dottrina – sul modo in cui essa opera nel mercato, né possono comportare il venir meno delle ragioni di tutela dell’affidamento di terzi contraenti contemplate dalla disciplina civilistica. Sul punto già Cass. 21991/2012 aveva precisato che, ai fini dell’esclusione di una società mista dal fallimento, non è di per sé rilevante la soggezione al potere di vigilanza e di controllo pubblico, che consista nella verifica della correttezza dell’espletamento del servizio comunale svolto, riguardando, pertanto, la vigilanza l’attività operativa della società nei suoi rapporti con l’ente locale o con lo Stato, non nei suoi rapporti con i terzi e le responsabilità che ne derivano. Il sistema di pubblicità legale, mediante il registro delle imprese, determina invero nei terzi un legittimo affidamento sull’applicabilità alle società ivi iscritte di un regime di disciplina conforme al nomen juris dichiarato, affidamento, che, invece, verrebbe aggirato ed eluso qualora il diritto societario venisse disapplicato e sostituito da particolari disposizioni pubblicistiche.

Va così tuttora ripetuto il senso dell’art. 4 della legge n. 70/1975, che nel prevedere che nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge, mostra altresì di richiedere che la qualità di ente pubblico, ove non attribuita da una espressa disposizione di legge, debba almeno potersi desumere da un quadro normativo di riferimento chiaro ed inequivoco. Ne consegue che anche una disamina sulla motivazione con cui pur App. Milano 17.7.2014, escludendo il controllo analogo, ha negato la sussistenza di una società in house providing, alla stregua di una esplicita recezione della puntuale analisi parimenti negativa condotta dalla Corte dei Conti (con delibera del 2013, aggiornata al periodo successivo al 2010-2011, cioè al referto sul partecipante Comune di Mozzate), risulta superflua. Così come non appare utile una verifica del postulato di una società a partecipazione pubblica che, rivestendo un carattere necessario per l’ente pubblico in ragione dell’attività svolta, non potrebbe essere dichiarata fallita in virtù della oggettiva incompatibilità fra tutela dell’interesse pubblico e normativa fallimentare, tenuto conto che alla Mozzate Patrimonio s.r.l. era stato affidato in gestione e manutenzione il patrimonio immobiliare sia proprio che del socio pubblico.

3. Né la supposta ed eventuale divergenza causale rispetto allo scopo lucrativo appare sufficiente ad escludere che, laddove sia stato adottato il modello societario, la natura giuridica e le regole di organizzazione della partecipata restino quelle proprie di una società di capitali disciplinata in via generale dal codice civile: ciò che rileva nel nostro ordinamento ai fini dell’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale non è il tipo dell’attività esercitata, ma la natura del soggetto. Le società nascono infatti per limitare la responsabilità rispetto ai soci secondo un proprio ordinamento, mentre la organizzazione prescelta per l’attività è appunto il mero riflesso della nascita di un soggetto giuridicamente diverso dai soci e dunque senza che a loro volta le regole di organizzazione di questi valgano in modo diretto a disciplinare il funzionamento e le obbligazioni di quello. Una volta adottato, anche da parte dell’ente pubblico, il blocco-sintagma societario, nella fattispecie della società a responsabilità limitata, la scelta di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali (e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico) comporta per un verso che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza.

Per altro verso, nemmeno potrebbe darsi la paradossale conclusione che anche le società a capitale interamente privato cui sia affidata in concessione la gestione di un servizio pubblico ritenuto essenziale siano esentate dal fallimento: lo escludono la necessità di preindividuazione certa del regime delle responsabilità e di quel rischio per cui l’ente pubblico-socio risponde, salvi altri regimi di concorrente responsabilità dei suoi organi (Cass. s.u. 5491/2014, 26936/2013), nei soli limiti del capitale di investimento immesso nella società divenuta insolvente. L’annullamento ad ogni effetto della soggettività dell’esaminata società, a ben vedere, procurerebbe altresì l’altro paradosso di un’azione dei creditori sociali della società in house che diverrebbero tutti creditori diretti dell’ente pubblico, con possibilità di azione esattamente ed invece scongiurata laddove l’ente pubblico abbia scelto, come visto, di delimitare la responsabilità per le obbligazioni assunte dalla società partecipata. Ciò convince che anche l’intento di Cass. s.u. 26283/2013 (conf. 5491/2014) è solo quello di preservare l’erario dalla malagestio degli organi sociali di società strumentali, in un’ottica selettiva e per quanto di rafforzamento della responsabilità che ne investe gli organi, come poi recepito dal cit. legislatore del 2016.

4. Anche nella vicenda non è pertanto invocabile, a fronte della partecipazione dell’ente pubblico, un procedimento di riqualificazione della natura del soggetto partecipato, nemmeno all’insegna della categoria, di volta in volta da disvelare, di una società di diritto speciale.

Come detto, solo quando ricorra una espressa disposizione legislativa, con specifiche deroghe alle norme del codice civile, potrebbe affermarsi la realizzazione di una struttura organizzata per attuare un fine pubblico incompatibile con la causa lucrativa prevista dall’art. 2247 c.c., con la possibile emersione normativa di un tipo con causa pubblica non lucrativa.

In difetto di tale intervento esplicito, il fenomeno resta quello di una società di diritto comune, nella quale pubblico non è l’ente partecipato bensì il soggetto, o alcuni dei soggetti, che vi partecipano e nella quale, perciò, la disciplina pubblicistica che regola il contegno del socio pubblico e quella privatistica che attiene al funzionamento della società convivono. E se è vero che l’ente pubblico in linea di principio può partecipare alla società soltanto se la causa lucrativa sia compatibile con la realizzazione di un proprio interesse (secondo norme e vincoli resi più stringenti dal d.lgs. n.175 del 2016), una volta che comunque la società sia stata costituita, l’interesse che fa capo al socio pubblico si configura come di rilievo esclusivamente extrasociale, con la conseguenza che le società partecipate da una pubblica amministrazione hanno comunque natura privatistica (Cass. s.u. 17287/2006).

Il rapporto tra società ed ente è perciò di assoluta autonomia, non essendo consentito al secondo di incidere unilateralmente sullo svolgimento dello stesso rapporto e sull’attività della società mediante poteri autoritativi, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario e mediante la nomina dei componenti degli organi sociali. Né, si osserva ancora, un eventuale abuso di tali poteri pubblicistici ovvero la previsione di accordi anche contrattuali tra società ed ente, in costanza del tipo societario operativo, possono farne aggirare il modello di responsabilità con efficacia verso i terzi, ciò altrimenti dipendendo, sostanzialmente, da imprevedibili scelte di mera convenienza, ancora una volta incompatibili con l’adozione a monte dell’istituto societario. La disciplina di convivenza così sintetizzata permette, come efficacemente spiegato in dottrina, che le società a partecipazione pubblica siano assoggettate a regole analoghe a quelle applicabili ai soggetti pubblici nei settori di attività in cui assume rilievo preminente rispettivamente la natura sostanziale degli interessi pubblici coinvolti e la destinazione non privatistica della finanza d’intervento; saranno invece assoggettate alle normali regole privatistiche ai fini dell’organizzazione e del funzionamento. E ciò vale anche per l’istituzione, la modificazione e l’estinzione, ove gli atti propedeutici alla formazione della volontà negoziale dell’ente sono soggetti alla giurisdizione amministrativa, ma gli atti societari rientrano certamente nella giurisdizione del giudice ordinario.

I ricorsi vanno dunque rigettati, con condanna alle spese dei ricorrenti e liquidazione come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta entrambi i ricorsi; condanna i ricorrenti in solido al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate per ciascuno in euro 10.200 (di cui 200 euro per esborsi), oltre al 15% forfettario sui compensi e agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti principale e incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per i rispettivi ricorsi, a norma del co. 1 bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 20 dicembre 2016.

Depositata in Cancelleria il 6 febbraio 2017.