In tema di locazione, l’inidoneità dell’immobile ai fini del conseguimento dell’abitabilità non rende annullabile il contratto per errore sulla qualità dell’oggetto, ma determina il mancato rispetto delle qualità che l’immobile deve possedere e dunque un vizio della cosa locata, con conseguente esperibilità del rimedio risolutorio previsto dall’art. 1578 c.c.
Ove manchi il certificato di abitabilità dell’immobile locato, non ricorrono i presupposti dell’impugnativa per errore ed il conduttore trova protezione nella disciplina della locazione mediante il rimedio risolutorio ai sensi dell’art. 1578 c.c.
La controversia decisa dall’ordinanza in oggetto trova origine in una intimazione di sfratto per morosità relativa ad un immobile concesso in locazione per uso non abitativo, relativamente al mancato pagamento di alcuni canoni di locazione. Disposto il rilascio dell’immobile ed il mutamento del rito, il Tribunale aveva dichiarato la risoluzione del contratto per inadempimento del conduttore con condanna al pagamento dei canoni e, al contempo, aveva rigettato la domanda riconvenzionale di quest’ultimo di condanna del locatore al risarcimento del danno.
La Corte d’Appello confermava la sentenza di primo grado, sostenendo, in relazione al motivo di appello concernente la domanda di nullità del contratto per mancanza del certificato di abitabilità dell’immobile e di annullabilità per vizio del consenso, che la mancanza del detto certificato non impediva la corretta instaurazione del rapporto locatizio, laddove vi fosse stata concreta utilizzazione del bene.
Avverso detta sentenza proponeva ricorso per Cassazione il conduttore; il Supremo Collegio, tuttavia, dopo la risoluzione di alcune eccezioni processuali, rigettava l’impugnazione ritenendola non meritevole di accoglimento nel merito.
Si doleva, il conduttore, che il locatore, pur essendo al corrente del mancato rilascio del certificato di abitabilità dell’immobile, lo avesse indotto in errore, facendogli concludere un contratto sul falso presupposto della sussistenza di un titolo (licenza di abitabilità) idoneo alla locazione. Osservava, inoltre, che il contratto era nullo per illiceità dell’oggetto o per consegna di aliud pro alio. Sosteneva, infine, che l’utilizzo dell’immobile locato privo di certificato di abitabilità costituisse abuso della proprietà, e che, mancando tale certificazione, il conduttore non aveva potuto accedere al finanziamento pubblico ai sensi della L. n. 266/1997, né aveva potuto concedere in affitto la propria azienda.
La giurisprudenza di legittimità è concorde nell’ammettere la possibilità di stipulare validamente un contratto di locazione anche in difetto di certificato di abitabilità, laddove vi sia stata la concreta utilizzazione dell’immobile da parte del conduttore (si veda, ex multis, Cass. Civ. 25.05.2010, n. 12708), ma ha anche ritenuto inadempiente il locatore nell’ipotesi in cui “le carenze intrinseche o le caratteristiche proprie” dell’immobile concesso in locazione siano impeditive del rilascio della detta certificazione e, di conseguenza, all’esercizio dell’attività del conduttore in conformità all’uso pattuito in contratto.
Il locatore, invero, risponde del mancato conseguimento dei titoli abilitativi dell’immobile locato necessari per l’esercizio dell’attività commerciale dedotta in contratto solamente nel caso in cui abbia assunto l’impegno di conseguire detti titoli abilitativi, oppure nel solo caso in cui il conseguimento di tali titoli debba ritenersi impossibile in ragione delle carenze intrinseche o le caratteristiche proprie del bene concesso in godimento, sì da impedire in radice il rilascio degli atti amministrativi necessari e, quindi, l’esercizio dell’attività del conduttore conformemente all’uso pattuito (cfr. Cass. Civ. 16.06.2014 n. 13651).
Ne deriva che, ove i titoli abilitativi siano conseguibili attraverso il compimento di talune opere di modificazione o di trasformazione del bene, e il locatore non abbia espressamente assunto l’impegno di compiere tali opere, le stesse saranno totalmente a carico del conduttore che ne assume integralmente l’onere.
Ciò chiarito, si può concludere che il criterio che rileva, per la fattispecie in esame, non è tanto il mancato rilascio della certificazione, quanto la “assoluta inidoneità” dell’immobile locato a poterla ottenere. Tale circostanza, a detta del Collegio, rileva non ai fini del consenso negoziale e della relativa patologia (determinando l’ipotesi dell’errore), ma dell’adempimento delle obbligazioni del locatore riconducibili all’art. 1575, n. 2, c.c.
Si deve dunque tenere distinta l’ipotesi dell’errore sulla qualità del bene, rilevante ai sensi dell’art. 1429, n. 2, c.c., dal vizio della cosa locata ai sensi dell’art. 1578 c.c. Nell’ipotesi in esame, afferma la Suprema Corte, non rileva l’errore sulla qualità del bene, che rende essenziale l’errore, perché il problema non è di mancanza in astratto delle qualità dell’oggetto del contratto rispetto a quelle rappresentate, ma è di assenza di una determinata qualità che l’immobile locato, per la sua destinazione economica, dovrebbe avere e di cui nel concreto difetta.
In conclusione, dal momento che l’immobile concesso in locazione deve naturalmente essere idoneo all’utilizzo (commerciale) pattuito in contratto, ove tale idoneità difetti per assenza del titolo abilitativo all’esercizio del commercio, il conduttore potrà ottenere tutela sotto il profilo del mancato rispetto delle qualità che l’immobile oggetto di locazione deve possedere e, dunque, in termini di vizi della cosa locata ai sensi dell’art. 1578 c.c.
Pertanto, laddove venga concesso in locazione un immobile privo dei titoli abilitativi per l’esercizio dell’attività pattuita in contratto, non si pone un problema di impugnazione del titolo per errore-vizio ai sensi dell’art. 1429 c.c., bensì il conduttore potrà agire in giudizio facendo valere l’inadempimento del locatore ai sensi dell’art. 1578 c.c.
Avv. Francesco Todeschini
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –
Dott. SCODITTI Enrico – rel. Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –
Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –
Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 9453/2016 proposto da:
D.P.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CASILINA 561, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO CORVASCE, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato SOFIA PASQUINO giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
B.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTASIO 67, presso lo studio dell’avvocato VINCENZA SALTARELLI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROBERTO DE FRAJA giusta procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 7280/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 06/03/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 30/01/2018 dal Consigliere Dott. ENRICO SCODITTI.
Svolgimento del processo
che:
B.L. intimò, con atto del 12 gennaio 2007, innanzi al Tribunale di Roma sfratto per morosità relativamente all’immobile concesso in locazione per uso non abitativo a D.P.G. per il mancato pagamento dei canoni di ottobre, novembre, dicembre 2006 e gennaio 2007. Disposto il rilascio con ordinanza non impugnabile del 13 marzo 2007 ed il mutamento del rito, il Tribunale adito accolse la domanda, dichiarando la risoluzione del contratto per inadempimento del conduttore con condanna al pagamento dei canoni, e rigettò la domanda riconvenzionale di condanna al risarcimento del danno. Avverso detta sentenza propose appello il D.P.. Con sentenza di data 6 marzo 2015 la Corte d’appello di Roma rigettò l’appello.
Osservò la corte territoriale, con riferimento al motivo di appello relativo alla nullità del contratto per la mancanza del certificato di abitabilità dell’immobile locato e alla annullabilità per vizio del consenso, che la mancanza del detto certificato non era di ostacolo alla valida costituzione del rapporto locatizio ove dal conduttore vi fosse stata concreta utilizzazione del bene, salva la facoltà di chiedere la risoluzione ove il provvedimento amministrativo fosse stato definitivamente negato (Cass. n. 12708 del 2010), e che “il conduttore non solo prima della intimazione di sfratto da parte della locatrice mai aveva richiesto la risoluzione) ma aveva continuato ad occupare e godere l’immobile, rendendosi ripetutamente moroso”. Aggiunse, con riferimento alla dedotta assenza del requisito della gravità dell’inadempimento, che il conduttore era già stato destinatario di due intimazioni di sfratto per morosità, rendendosi ulteriormente inadempiente, e che non poteva essere invocato il principio del ne bis in idem poichè le richieste di risoluzione nei diversi procedimenti si riferivano ad episodi diversi sia oggettivamente che cronologicamente. Concluse nel senso che gli ulteriori motivi restavano assorbiti.
Ha proposto ricorso per cassazione D.P.G. sulla base di cinque motivi e resiste con controricorso la parte intimata. E’ stato fissato il ricorso in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2. E’ stata presentata memoria.
Motivi della decisione
che:
va preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per mancanza del requisito della sommaria esposizione dei fatti di causa perchè alla riproduzione delle sentenze di primo e secondo grado si accompagna l’esposizione del fatto processuale e sostanziale.
Va anche preliminarmente disattesa l’eccezione di litispendenza sollevata dal ricorrente in relazione al procedimento n. 5123 del 2015 dinanzi alla Corte d’appello di Roma in sede di rinvio da pronuncia di questa Corte. La questione relativa alla sussistenza della litispendenza deve essere decisa con riguardo alla situazione processuale esistente al momento della relativa pronuncia e, dunque, avuto riguardo anche agli eventi processuali sopravvenuti; pertanto, l’eccipiente deve produrre la relativa idonea documentazione anche in Cassazione, non essendo soggetti alla preclusione disposta dall’art. 372 c.p.c., gli atti concernenti questioni proponibili in ogni grado di giudizio e rilevabili d’ufficio, come la questione relativa alla litispendenza (Cass. 22 dicembre 2016, n. 26862). Tale onere non risulta assolto dal ricorrente. L’onere non risulta assolto neanche sotto il profilo della connessione pure richiesta. A parte tale aspetto, va rammentato che litispendenza e connessione presuppongono la pendenza delle cause nel medesimo grado (fra le tante Cass. n. 8833 del 2002).
Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 24 e 111 Cost., artt. 1372 e 2907 c.c., artt. 88 e 99 c.p.c., nonchè carente e contraddittoria motivazione. Osserva il ricorrente che illegittimamente era stata frazionata l’iniziativa giudiziaria in relazione al credito unitario in tre differenti procedimenti con abuso del processo.
Il motivo è infondato. Il ricorrente richiama il principio di infrazionabilità di un credito unitario in una pluralità di richieste giudiziali di adempimento (Cass. Sez. U. 15 novembre 2007, n. 23726). Il presupposto di fatto della detta censura, e cioè il carattere unitario del corrispettivo dovuto, non risulta accertato dal giudice di merito, il quale ha parlato di richieste di risoluzione riferite a periodi diversi, nè è stata proposta apposita denuncia di vizio motivazionale (non potendosi ricavare l’esistenza di una simile denuncia dal richiamo in rubrica alla formulazione del vizio motivazionale non più vigente). Lo stesso ricorrente del resto nel ricorso fa riferimento al frazionamento dell’obbligazione del conduttore in una pluralità di canoni da pagare con cadenza mensile. Resta quindi fermo l’accertamento di fatto nel senso dei canoni a carattere periodico rispetto ai quali non è configurabile il credito unitario.
Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., artt. 112, 113 e 324 c.p.c., nonchè carente e contraddittoria motivazione. Osserva il ricorrente che al momento dell’introduzione del presente giudizio la locatrice aveva introdotto altri due giudizi di sfratto per morosità, rispettivamente per i canoni di locazione dei mesi di febbraio, marzo, aprile e maggio 2006 e per i canoni dei mesi di luglio, agosto e settembre 2006, e che al momento in cui nel presente giudizio è stata depositata la sentenza di primo grado era già stato risolto il contratto sulla base di precedente sentenza del Tribunale oggetto di rinvio in appello dalla Corte di cassazione, sicchè la sentenza impugnata era inidonea al raggiungimento del proprio scopo in quanto il contratto risultava già risolto. Aggiunge che la sentenza di primo grado è stata pronunciata ultra petitum per essere stata valutata la gravità dell’inadempimento del conduttore sulla base di fatti appartenenti ad altro procedimento giudiziario non ancora passato in giudicato e che è stato violato il principio del ne bis in idem non potendosi formare due giudicati di risoluzione sul medesimo contratto di locazione.
Il motivo è inammissibile. Con riferimento alla censura di pronuncia ultra petitum in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, il ricorrente non ha specificatamente indicato se sia stato proposto motivo di appello nei termini indicati dalla censura allo scopo di valutare se sul profilo in discorso si sia formato il giudicato interno. Quanto alla censura in termini di inconfigurabilità di due giudicati di risoluzione sul medesimo contratto di locazione, è lo stesso ricorrente a precisare che la precedente sentenza è oggetto di appello da rinvio dalla Corte di Cassazione e che pertanto non si è ancora formato il giudicato. La censura manca quindi del proprio presupposto, che è l’esistenza del precedente giudicato.
Con il terzo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1453, 1455, 1460, 1576, 1577 e 1578 c.c., nonchè carente e contraddittoria motivazione. Osserva il ricorrente, ritrascrivendo il contenuto di parte dell’atto di appello, che il giudice di appello ha omesso di pronunciare sull’eccezione di compensazione del debito per i canoni con il credito derivante dalle spese sopportate per interventi di manutenzione straordinaria, spettanti in realtà alla locatrice.
Il motivo è inammissibile. Il giudice di appello alla fine della motivazione della decisione ha ritenuto assorbiti gli ulteriori motivi di appello. Non vi è stata quindi omessa pronuncia in senso proprio, ma pronuncia di assorbimento. L’omessa pronuncia rappresenta in realtà la conseguenza di un’errata statuizione di assorbimento. Il ricorrente aveva l’onere di impugnare la statuizione di assorbimento, contestando la ricorrenza dei presupposti dell’effetto di assorbimento (cfr. Cass. 12 luglio 2016, n. 14190; 9 ottobre 2012, n. 17219), ciò che non è stato fatto.
Peraltro il ricorrente, pur avendo ritrascritto il contenuto di parte dell’appello, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, non ha indicato in modo specifico la sede processuale ove sia in primo, che in secondo grado, abbia espressamente sollevato l’eccezione di compensazione.
Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1418, 1427, 1375, 1575 e 1578 c.c., art. 115 c.p.c., nonchè carente e contraddittoria motivazione. Osserva il ricorrente che la locatrice, essendo al corrente della mancanza del certificato di abitabilità, ha indotto in errore il conduttore facendogli concludere il contratto sulla base del falso presupposto che l’immobile fosse in regola dal punto di vista della licenza di abitabilità e che è stata la medesima locatrice ad ammettere l’originaria inesistenza del certificato in discorso depositandone in giudizio uno datato 2 marzo 2007 (di epoca successiva quindi alla restituzione dell’immobile). Aggiunge che il giudice di appello ha rigettato l’eccezione di annullabilità del contratto per vizio del consenso senza motivazione e senza svolgere alcuna attività ermeneutica in ordine all’essenzialità e riconoscibilità dell’errore. Osserva inoltre che il contratto è nullo per illiceità dell’oggetto e/o per consegna di aliud pro alio e che non rispondeva a verità che il D.P. non avesse proposto domanda di risoluzione come dimostrato dal contenuto della memoria ai sensi dell’art. 426 c.p.c.. Conclude nel senso che l’utilizzo del bene privo del certificato di abitabilità costituisce abuso della proprietà trattandosi della certificazione attestante che non sussistono rischi per la salute pubblica e l’incolumità delle persone e che mancando tale certificazione il conduttore non aveva potuto accedere al finanziamento pubblico ai sensi della L. n. 266 del 1997, nè aveva potuto concedere in affitto la propria azienda.
Il motivo è infondato. La ratio decidendi, mediante cui sono stati disattesi i motivi di appello relativi alla nullità ed annullabilità del contratto per vizio del consenso, è nel senso che il rapporto di locazione si instaura validamente nonostante la mancanza del certificato di abitabilità ove, come nel caso di specie, vi sia stata la concreta utilizzazione dell’immobile da parte del conduttore, il quale prima dell’intimazione di sfratto per morosità non aveva mai chiesto la risoluzione del contratto (diversamente dal motivo di censura il giudice di merito non ha negato che nel presente giudizio sia stata proposta domanda di risoluzione; ha invece affermato che una simile domanda non era stata proposta prima del giudizio introdotto dalla locatrice). Tale ratio è conforme all’evoluzione della giurisprudenza di questa Corte, la quale non solo ha conferito rilevanza ai fini della valida costituzione del rapporto alla concreta utilizzazione dell’immobile (Cass. 25 maggio 2010, n. 12708), ma ha anche ritenuto sussistente l’inadempimento del locatore, a parte l’ipotesi dell’obbligo contrattualmente assunto di richiedere la certificazione relativa all’abitabilità, nel solo caso in cui le carenze intrinseche o le caratteristiche proprie del bene locato ostino al rilascio della predetta certificazione e all’esercizio dell’attività del conduttore in conformità all’uso pattuito, restando escluso il detto inadempimento allorchè il conduttore abbia conosciuta e consapevolmente accettata l’assoluta impossibilità di ottenere la certificazione in discorso (Cass. 26 luglio 2016, n. 15377; 16 giugno 2014, n. 13651). Il criterio rilevante sulla base dell’evoluzione della giurisprudenza è dunque non la mancanza della certificazione ma l’assoluta inidoneità del bene locato a poterla ottenere. Ed invero la circostanza dell’inidoneità dell’immobile ai fini del conseguimento dell’abitabilità rileva ai fini non del consenso negoziale e della relativa patologia (determinando l’ipotesi dell’errore) ma dell’adempimento delle obbligazioni del locatore riconducibili all’art. 1575 c.c., n. 2 (mantenere la cosa locata in stato da servire all’uso convenuto).
Si deve distinguere fra l’errore sulla qualità ai sensi dell’art. 1429 c.c., n. 2, ed il vizio della cosa locata ai sensi dell’art. 1578 c.c.. Non c’è l’errore sulla qualità, che rende essenziale l’errore (art. 1429 c.c., n. 2), perchè il problema non è di mancanza in astratto delle qualità dell’oggetto del contratto rispetto a quelle rappresentate, ma è di assenza di una determinata qualità che l’oggetto, per la sua destinazione economi a dovrebbe avere e di cui nel concreto difetta.
L’immobile visto il profilo urbanistico edilizio – deve essere idoneo al conseguimento dell’abitabilità: ove detta qualità di fatto manchi, la protezione del conduttore si realizza al livello del mancato rispetto delle qualità che l’immobile oggetto di locazione deve possedere e dunque in termini di vizi della cosa locata ai sensi dell’art. 1578. In caso di mancanza dell’idoneità dell’immobile non ricorrono quindi i presupposti dell’impugnativa per errore ed il conduttore trova protezione nella disciplina della locazione (e dello stesso contratto ove risulti una specifica assunzione di obbligazione da parte del locatore) mediante il rimedio risolutorio ai sensi dell’art. 1578 c.c. (si veda anche Cass. 7 giugno 2011, n. 12286).
Con il quinto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 1455, 1578 e 1460 c.c., nonchè carente e contraddittoria motivazione. Osserva il ricorrente, premesso che la mancanza di abitabilità costituisce inadempimento del locatore che giustifica la risoluzione del contratto, che mancava la gravità dell’inadempimento del conduttore perchè al momento della notificazione dell’intimazione di sfratto per morosità il conduttore era in ritardo (giustificato) del pagamento di un canone mensile per soli sette giorni e che il giudice di appello aveva ignorato il grave inadempimento della locatrice, la quale aveva indotto il D.P. a sottoscrivere un contratto che non avrebbe mai concluso, aveva incardinato tre giudizi di sfratto per morosità al solo fine di impedire al D.P. di esercitare il diritto al certificato di abitabilità e aveva depositato quest’ultimo certificato solo dopo che il conduttore aveva restituito l’immobile. Aggiunge che il comportamento della locatrice, anche in violazione del principio di buona fede, aveva cagionato danni al conduttore, non avendo potuto costui accedere al finanziamento pubblico ai sensi della L. n. 266 del 1997, nè concedere in affitto la propria azienda.
Il motivo è inammissibile. In materia di responsabilità contrattuale, la valutazione della gravità dell’inadempimento ai fini della risoluzione di un contratto a prestazioni corrispettive, ai sensi dell’art. 1455 c.c., costituisce questione di fatto, la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito, risultando insindacabile in sede di legittimità ove sorretta da motivazione immune da vizi (fra le tante da ultimo Cass. 30 marzo 2015, n. 6401). Sotto il profilo del vizio motivazionale il ricorrente non ha denunciato l’omesso esame di fatto controverso e decisivo, ma si è limitato a richiamare in rubrica l’ipotesi di vizio motivazionale non più vigente. Per il resto ha giustapposto all’apprezzamento del giudice di appello una propria valutazione delle circostanze di fatto che costituisce ambito del giudizio di fatto sottratto al sindacato di legittimità.
La controricorrente ha chiesto la cancellazione, quali espressioni sconvenienti ed offensive ai sensi dell’art. 89 c.p.c., delle espressioni “condotta fraudolenta” e “dichiarazioni mendaci”. L’istanza non merita accoglimento in quanto l’utilizzo di tali espressioni si inquadra nella linea difensiva tesa a censurare una condotta della locatrice tale da indurre in errore il conduttore in ordine alla presenza del certificato di abitabilità. Benchè tali espressioni siano riferite nel ricorso all’istanza proposta dalla locatrice ai fini del conseguimento dell’atto amministrativo relativo all’abitabilità e dunque in relazione al rapporto con la pubblica amministrazione, esse mirano a collocare la condotta della locatrice nel quadro più generale del contegno censurato e dunque si inquadrano nella linea difensiva sopra evidenziata.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene disatteso, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1 quater al Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2018.
Depositato in Cancelleria il 13 giugno 2018