Come noto, la Legge n. 242/2016 ha introdotto norme per il sostegno e la promozione della coltivazione e della filiera della Cannabis sativa L., a condizione che la percentuale “drognate” della pianta non superi lo 0,6 % di THC.

La legge, oltre a consentire la coltivazione della canapa a determinate condizioni, specifica quali prodotti sia possibile ottenere in modo lecito dalla coltivazione della stessa.

La questione giuridica sorta a seguito dell’entrata in vigore della legge citata attiene alla liceità o meno della commercializzazione dei derivati dalla coltivazione della canapa non espressamente richiamati dalla normativa, specie per quanto riguarda le influorescenze  (marijuana) e alle resine (hashish).

Sul tema, si contrappongono due orientamenti giurisprudenziali, dove il primo ritiene vietata la commercializzazione dei prodotti che non siano espressamente elencati dalla legge che, in deroga al D.P.R. n. 309/1990, ammette la coltivazione della canapa per determinate finalità. Ne consegue che la detenzione e la commercializzazione dei derivati della coltivazione costituiti da marijuana (influorescenze) e hashish (resine) rimarrebbero disciplinate dal D.P.R. n. 309/1990, che ne vieta sia la detenzione che la commercializzazione (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 27 novembre 2018, n. 56737; Cass. pen., Sez. VI, 10 ottobre 2018, n. 52003; Cass. pen., Sez. IV, 13 giugno 2018, n. 34332).

Il secondo indirizzo giurisprudenziale, invece, pone evidenza alla finalità legislativa di promozione e commercializzazione dei prodotti derivanti dall’intera “filiera agroindustriale della canapa”. Pertanto, tutti i prodotti derivanti dalla coltivazione aventi un principio attivo inferiore allo 0,6 % di THC non dovrebbero essere considerati, ai fini giuridici, degli stupefacenti (Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 29 novembre 2018, n. 4920). Sarebbe dunque contraddittorio ritenere vietata la detenzione, la cessione e la vendita di derivati della “cannabis light” provenienti dalle coltivazioni contemplate dalla legge n. 242 del 2016 e quindi lecite.

Sulla scorta dei due orientamenti sommariamente richiamati, la IV° Sezione Penale della Corte di Cassazione ha rimesso la seguente questione di diritto alle Sezioni Unite: “se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nell’art. 1, comma 2, legge 2 dicembre 2016 n. 242 – e, in particolare, la commercializzazione di cannabis sativa L – rientrino o meno nell’ambito di applicabilità della predetta legge e siano pertanto penalmente irrilevanti, ai sensi di tale normativa”.

Ferma restando la necessità di esaminare le motivazioni della decisione, preme portare all’attenzione del lettore come il 30 maggio 2019 sia stata pubblicata l’informazione provvisoria delle Sezioni Unite secondo cui: “la commercializzazione di cannabis sativa L e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel Catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati; pertanto, integrano il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/1990, le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L, salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”.

Avv. Stefano Malfatti